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Covid 19

Quando dovremo fare la quarta dose di vaccino, e quanto sarà utile con le nuove varianti

Presto la variante Xe sarà prevalente in tutto il mondo. Cosa cambia nelle strategie sulla quarta dose del vaccino. Un po’ di numeri per spiegarlo. E per spiegare che l’emergenza non è finita, anche se facciamo finta lo sia.
A cura di Giorgio Sestili
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In collaborazione con Francesco Luchetta

XE ma non solo. Sono diverse le mutazioni del Sars-CoV-2 sotto osservazione della UK Health Security Agency, l’equivalente inglese del nostro Istituto Superiore di Sanità ma con una grande differenza: da oltre un anno oltremanica sequenziano tantissimo genoma del virus e condividono con l’intera comunità scientifica internazionale importanti dati sulla nascita e la diffusione di nuove varianti, cosa che noi in Italia non facciamo. Proprio per questo a dare le prime indicazioni sulla nuova variante XE sono ancora una volta loro, gli scienziati del Regno Unito.

XE è una ricombinazione di BA.1 e BA.2 (le due varianti di Omicron), con la maggior parte del genoma che include il gene S appartenente alla seconda, che ricordiamo essere molto più contagiosa di tutte le altre varianti. XE è già stata rilevata in Inghilterra seppur con un tasso di prevalenza minore dell’1% del totale dei casi sequenziati.

Le analisi preliminari non mostrano tassi di crescita significativamente diversi: i dati più recenti, aggiornati al 16 marzo 2022, indicano un tasso di crescita di XE superiore del 9,8% rispetto a BA.2. Ma i dati sono ancora troppo pochi e andranno consolidati nelle prossime settimane. Quello che però possiamo dire con semplici conti matematici è che, se questi dati venissero confermati, XE potrebbe diventare dominante in UK in un paio di mesi, ma anche questo calcolo è destinato ad oscillare parecchio in pase al reale tasso di diffusione di XE rispetto alle altre varianti.

Quarta dose per tutti: si o no?

La prima indicazione arriva proprio dall’analisi appena fatta per XE. La quarta dose per tutti, se mai ci sarà, arriverà tra qualche mese, quando XE con buona probabilità sarà dominante. Per questo è fondamentale analizzare a fondo questa variante, capirne non solo la contagiosità ma anche la letalità, e soprattutto misurare l’efficacia dei vaccini contro di essa.

Altre importanti indicazioni arrivano dai dati inglesi sull'efficacia della dose booster. Il Grafico 1 mostra l'andamento dell'efficacia dei vaccini nel prevenire le ospedalizzazioni negli over 65, in funzione dei giorni trascorsi dal momento del richiamo. Il grafico indica una decrescita, apparentemente lineare, dell’efficacia a partire dalla seconda settimana dopo la somministrazione, quando si ha la massima protezione. Dopo due mesi e mezzo dal richiamo si perdono circa 6 punti percentuali di efficacia. In maniera un po’ grossolana, quindi, potremmo ipotizzare una perdita di efficacia di circa 3 punti percentuali ogni mese.

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Che anche l’efficacia della dose booster calasse nel tempo non è di certo una novità. Quello che è importante specificare in questo contesto è che non esiste una percentuale “limite” di efficacia al di sotto della quale si decide che un vaccino non è più efficace. Il vaccino contro l’influenza, ad esempio, ogni anno viene aggiornato in base al nuovo virus in circolazione, e ogni anno il vaccino prodotto ha un’efficacia diversa, che spesso si aggira intorno al 50-60%, ben al di sotto dei vaccini anti-Covid.

I dati italiani

Cominciamo ad avere importanti dati consolidati anche in Italia, almeno per le fasce di età più avanzate, le prime ad aver fatto il richiamo. I Grafici 2 e 3 mostrano l’andamento dell’efficacia della dose booster nel prevenire le ospedalizzazioni e i ricoveri in terapia intensiva, per gli over 80 (in rosso) e per la fascia 60-79 anni (in blu).

L’andamento dei dati italiani non si discosta di molto da quanto indicato da quelli inglesi. La perdita di efficacia in 3 mesi è di circa 9 punti percentuali: una diminuzione di circa il 3% al mese, in linea con i dati UK. Il dato è confermato sia per gli over 80, sia per i 60-79 anni. Inutile invece guardare alle altre fasce d’età, troppo pochi i dati per poterne fare una solida statistica.

Quando fare, quindi, la quarta dose?

Per rispondere a questa domanda non esiste alcun protocollo stabilito dalle agenzie preposte né indicazioni chiare da parte dell’Oms. La scelta se fare o meno la quarta dose rimane apparentemente arbitraria.

Quello che possiamo dire è che in Italia abbiamo deciso di somministrare la terza dose booster quando l'efficacia delle prime due era intorno all'80%. Allora però c’erano fattori molto diversi da oggi: i dati israeliani che indicavano un netto peggioramento nel tempo dell’efficacia dei vaccini, l’arrivo della contagiosissima Omicron, uno stato di emergenza a livello mondiale ancora molto alto.

Oggi il quadro è decisamente mutato. Tutti i Paesi, almeno quelli Occidentali, stanno eliminando qualsiasi misura di contenimento e la scelta è quella di lasciare il virus libero di circolare. Le ondate di Omicron hanno prodotto un numero di casi positivo mai registrato dall’inizio della pandemia, ma il livello delle ospedalizzazioni è rimasto al di sotto dei livelli di allerta. Insomma, tutto lascia pensare che questa volta non ci sarà così tanta fretta nella somministrazione della quarta dose come invece è accaduta con la terza.

Anche in questo caso, quello che possiamo dare è una stima temporale relativa alla diminuzione di efficacia dei vaccini. Stabilire all’80% di efficacia la soglia per la quarta dose significa effettuarla a distanza di 5 o 6 mesi dalla terza. Se invece si decidesse di “tirare dritti” fino al 70% di efficacia, questo implicherebbe un rischio di ospedalizzazione del 50% superiore, e la somministrazione della quarta dose a circa 8 mesi e mezzo dalla terza. Staremo a vedere, ma intanto l’Oms lancia un allarme importante e che andrebbe ascoltato.

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Il monito dell’Oms

Proprio quando tutti i Paesi dichiarano la fine dell’emergenza, arriva un richiamo durissimo nei toni da parte dell’Oms, che in genere è molto attenta a non urtare troppo le diverse sensibilità nazionali. Nel report epidemiologico dello scorso 29 marzo dice letteralmente: “Questo trend (calante, ndr.) dovrebbe essere interpretato con cautela, perché molti Paesi stanno progressivamente modificando le proprie strategie di testing, con il risultato di avere un numero complessivo inferiore di test eseguiti e di conseguenza un numero più basso di casi individuati. […] L'Oms è preoccupata per la recente significativa riduzione dei test Sars-CoV-2 in molti Paesi membri. I dati stanno diventando progressivamente meno rappresentativi, meno tempestivi e meno solidi. Questo inibisce la nostra capacità collettiva di tracciare dove si trova il virus, come si diffonde e come evolve: informazioni e analisi che restano fondamentali per porre fine in modo efficace alla fase acuta della pandemia”.

L’allarme dell’Oms è molto chiaro: la pandemia non è finita e i governi nazionali non stanno adottando le corrette strategie per continuare a monitorare e tracciare il virus, come invece i due anni di emergenza che abbiamo alle spalle imporrebbero di fare.

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Fisico di formazione, comunicatore scientifico di professione. Mi occupo di scienza, tecnologia, innovazione, e aiuto a comunicarle bene. Fondatore del progetto "Coronavirus - Dati e Analisi Scientifiche". Tutto su di me su giorgiosestili.it
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