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Cambiamenti climatici

Perché lasciamo che sia un petroliere a presiedere la trattativa mondiale sul clima

Si avvicina l’inizio di Cop28 la conferenza mondiale sul clima. A guidare le trattative ci sarà Sultan al-Jaber, ministro dell’industria degli Emirati Arabi Uniti, e petroliere. Mentre la produzione di combustili fossili aumenta invece di diminuire, mettere a capo di una conferenza mondiale che dovrebbe segnare una svolta epocale verso la conversione ecologica chi ha tutto da guadagnare dal petrolio, è un pessimo segnale.
A cura di Fabio Deotto
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C’è un esercizio mentale che è utile fare di tanto in tanto, ed è quello di proiettarsi qualche decina d’anni nel futuro, per poi immaginarsi di leggere le notizie che stanno uscendo con un punto di vista diverso. Qualcuno potrebbe obiettare che il futuro non lo possiamo conoscere, il che non è però del tutto vero: climaticamente parlando sappiamo che le temperature sono destinate ad aumentare, e che questo aumento dipenderà da quanto ridurremo le nostre emissioni di gas climalteranti nei prossimi anni.

Proviamo allora a spingerci vent’anni nel futuro, in un 2043 che, nella migliore delle ipotesi, sarà di alcuni decimi di grado più caldo di oggi. Alcuni decimi di grado, l’abbiamo visto, sembrano pochi, ma innescano problematiche trasversali e devastanti. Parliamo quindi di un mondo in cui le ricadute del riscaldamento globale sono molto più visibili di oggi, e probabilmente anche di un mondo in cui l’azione climatica procede a un ritmo più spedito di quello di oggi. In una situazione simile, faremmo fatica a leggere le notizie di fine 2023 senza sentir crescere un moto di frustrazione e rabbia.

Soprattutto se mettiamo a confronto l’estate che abbiamo appena superato, e la sua drammatica coda autunnale, con le settimane che stanno precedendo la COP28, ossia la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Verrà ospitata a Dubai tra il 30 novembre e il 12 dicembre, e rappresenta l’unico tavolo esistente che riunisce capi di stato e rappresentanti di tutto il mondo per trovare una soluzione congiunta alla minaccia esistenziale climatica.

Un tavolo sempre più ingessato

Si chiama COP28 perché è il ventottesimo anno che questo tavolo viene aperto, è il ventottesimo anno che centinaia di rappresentati politici, aziendali e scientifici si siedono allo stesso tavolo, ed è il ventottesimo anno che dopo interminabili discussioni i paesi di tutto il mondo arrivano a firmare un documento congiunto che dovrebbe rappresentare un passo in avanti significativo nella sfida più grande che l’umanità si sia mai trovata ad affrontare.

Se consideriamo che questi accordi sono stati firmati da oltre 150 nazioni, e che rimarcano in maniera inequivocabile l’impegno a ridurre il più velocemente possibile il peso dei combustibili fossili nel mix energetico, e dunque le emissioni ad essi legate, ci aspetteremmo di trovarci a cavallo di una curva discendente. E invece stiamo osservando l’esatto contrario. Non solo l’estrazione di combustibili fossili non sta diminuendo, ma sta continuando ad aumentare, tanto che di qui al 2030 ci si aspetta un incremento del 9%.

A rivelarlo è il 2023 Production Gap report, dal quale risulta evidente qualcosa che già sapevamo: ossia che esiste una significativa discrepanza tra le riduzioni necessarie a mantenere le temperature al di sotto degli 1,5 di riscaldamento globale e quelle promesse dai vari governi; ma anche qualcosa che non sapevamo: e cioè che esiste una forte discrepanza anche tra queste promesse e i progetti che i vari governi stanno perseguendo di qui ai prossimi decenni.

Paesi come gli Stati Uniti, la Cina, il Brasile, l’India e la Russia si apprestano ad aumentare di diversi punti percentuali la loro produzione di gas e petrolio di qui al 2030; e i pochi paesi, tra i maggiori produttori fossili, che programmano di ridurne la produzione, otterranno riduzioni che non superano nemmeno l’1%.

Una catastrofe programmata

I dati (che abbiamo a disposizione ormai da anni) parlano chiaro, e sono dati affidabili, rappresentando la convergenza di centinaia di studi condotti da migliaia di scienziati indipendenti da tutto il mondo: se vogliamo avere una speranza di poter mantenere le temperature entro la soglia considerata sicura per mantenere vivibile la maggior parte del pianeta, avremmo bisogno di ridurre al minimo la produzione di carbone entro il 2040 e di tagliare di almeno 2/3 la produzione di gas e petrolio.

I governi che dovrebbero spingere e accompagnare questa transizione, di fatto, la stanno contrastando; a prescindere da quante belle parole vengano spese dai loro rappresentanti nelle sedi internazionali. E non perché non siano al corrente del problema, né perché non abbiano le risorse per avviare questa transizione.

Stando a un report del Fondo Monetario Internazionale, nel solo 2022 i governi mondiali (Italia compresa) hanno speso la cifra record di 7000 miliardi di dollari in sussidi al settore fossile. Parliamo di 13 milioni di dollari al minuto, quasi il doppio di quanto gli stessi governi investono ogni anno in educazione e 2/3 di quello che investono in sanità.

Appare dunque palese l’intenzione di privilegiare gli interessi di chi oggi stringe le redini del settore fossile, puntellando un sistema che ci si è impegnati a smantellare, a discapito di una popolazione mondiale che subirà conseguenze letali di un problema già oggi fuori controllo.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, è uno dei più bravi a osservare la realtà presente da una prospettiva futura, e infatti non ha indorato la pillola: “I governi stanno letteralmente raddoppiando la produzione di combustibili fossili” ha dichiarato“questo rappresenta un doppio problema per le persone e per il pianeta. Non possiamo affrontare la catastrofe climatica senza affrontare la sua causa principale: ossia la dipendenza dai combustibili fossili. La COP28 deve inviare un chiaro segnale che l'era dei combustibili fossili è finita, che la sua fine è inevitabile. Abbiamo bisogno di impegni credibili per incrementare le energie rinnovabili, eliminare gradualmente i combustibili fossili e aumentare l'efficienza energetica, garantendo al contempo una transizione giusta ed equa".

L’ossimoro del petroliere ecologista

Storicamente, ogni COP è stata accompagnata da un corredo di timori e speranze, e questa non fa eccezione. Quello che rende questo appuntamento diverso dai precedenti 27, però, è che a presiederlo sarà Sultan Al Jaber. Oltre a essere ministro dell’industria degli Emirati Arabi Uniti, Al Jaber è anche il CEO della Abu Dhabi National Oil Company (Adoc), che tra le compagnie fossili è una di quelle con più progetti di espansione estrattiva di qui ai prossimi anni.

La nomina di Al Jaber a presidente di COP28 ha sollevato numerose polemiche, com’era prevedibile. Se infatti è vero che i governi hanno un ruolo cruciale nel rallentamento della transizione ecologica, le aziende (e le banche) sono gli attori che più hanno da guadagnare dal prolungamento dello status quo.

Nelle scorse settimane, l’organizzazione non governativa tedesca Urgewald ha compilato la Global Oil and Gas Exit List (Gogel), un database ad accesso pubblico che raccoglie le attività di oltre 1600 compagnie fossili, responsabili del 95% della produzione globale. Dalla lettura di Gogel risulta evidente come, negli ultimi due anni, l’industria fossile abbia speso 170 miliardi di dollari per l’esplorazione di nuove riserve di gas e petrolio, come il 96% delle aziende non abbiano interrotto i loro piani di espansione, e come 1000 di queste stiano pianificando l’apertura di nuove centrali a gas.

Ma torniamo al 2043 e proviamo a osservare questa situazione da un punto d’osservazione futuro: viene da chiedersi come sia stato possibile che nel pieno di un’emergenza climatica che già causava danni e morti ingenti il tavolo internazionale per affrontare la crisi sia stato affidato a un petroliere; viene da chiedersi perché abbiamo lasciato che il maggiore strumento di cooperazione internazionale sull’emergenza climatica potesse essere dirottato da chi ha tutti gli interessi a disinnescarlo; viene da chiedersi come potesse sembrarci normale un’assurdità simile, e cosa avremmo potuto fare per impedirla.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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