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Cambiamenti climatici

Per Jeremy Rifkin solo la Terza Rivoluzione Industriale può salvare il nostro futuro

Un’intervista a Jeremy Rifkin in occasione dell’uscita dell’ultimo libro dell’economista statunitense “L’età della resilienza. Ripensare l’esistenza su una terra che si rinaturalizza”. Per Rifkin il futuro non è perduto: l’umanità possiede gli strumenti tecnologici per salvarsi dagli effetti più catastrofici dei cambiamenti climatici e cambiare paradigma emancipandosi dai combustibili fossili. Ma un cambiamento così radicale non è scontato: servono scelte politiche precise. E del nostro paese dice: “Sulla transizione ecologica l’Italia è indietro”.
A cura di Fabio Deotto
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Esistono sostanzialmente due tipi di preveggenti: da un lato ci sono quelli che, con lo studio o con l’immaginazione, si dedicano a pronosticare il futuro; dall'altro quelli che si impegnano attivamente a influenzarlo. Jeremy Rifkin appartiene a entrambe le classi di visionari.

Dal 1973, quando organizzò a Boston una delle prime proteste di massa contro le aziende petrolifere, ha sempre dimostrato di essere diversi passi avanti rispetto al suo tempo. Nella ventina di saggi che ha pubblicato da allora ha sempre inquadrato un orizzonte più distante di quello visibile, e il più delle volte le sue previsioni si sono rivelate corrette. Basti pensare al fatto che è stato tra i primi a problematizzare le prospettive del settore delle biotecnologie in Who Should Play God (un saggio del 1977), a delineare le prospettive di una società post-lavorista in La fine del lavoro (1995), o l’imporsi del mercato dello streaming e del cloud ne L'Era dell'accesso (2000).

Ma Rifkin è anche una persona che il futuro cerca di influenzarlo: se già alla fine degli anni '80 organizzava campagne contro il riscaldamento globale, negli ultimi 20 ha collaborato attivamente con i governi statunitensi ed europei (Italia compresa) per promuovere la nascita di un Green New Deal e implementare progetti di decarbonizzazione e trasformazione infrastrutturale. Nel 2021,  in collaborazione con il senatore democratico Charles Schumer, ha coordinato la stesura di un piano intitolato America 3.0 Resilient Infrastructure che prevede lo stanziamento di 16.000 miliardi di dollari per la costruzione di un’infrastruttura a zero emissioni che, secondo le previsioni, genererebbe entro i prossimi 20 anni fino a 20 milioni di nuovi posti di lavoro e un ritorno economico quasi 3 volte superiore all’investimento.

Il suo ultimo saggio, L'età della resilienza (Mondadori, 2022), rappresenta un punto di convergenza di tutta la sua ricerca e allo stesso si presenta come una bussola per orientarsi nella costruzione di un mondo decarbonizzato, rinaturalizzato e capace di adattarsi alla crisi climatica che stiamo attraversando.

Abbiamo voluto parlarne direttamente con l'autore, per capire quale tipo di futuro stia inquadrando all’orizzonte, e quale invece stia attivamente cercando di fare emergere.

Il libro parte dalla contrapposizione tra efficienza e resilienza, individuando in questo periodo storico la cresta di una transizione dall’età del Progresso a quella, appunto, della Resilienza. Un cambio di paradigma che richiede di cambiare i sistemi di valutazione da una misura della ricchezza astratta come il denaro, alla misura della ricchezza reale degli ecosistemi e delle risorse naturali. Puoi spiegarci come questa dinamica si sia evoluta?

Negli ultimi due anni è suonato un campanello d’allarme, anche se nessuno ne vuole parlare. La gente si rende conto che il clima è completamente trasformato. Un tempo pensavamo di essere la specie dominante e ora ci rendiamo conto che il pianeta è molto più potente di quanto avessimo mai pensato possibile, e noi per contro siamo molto meno resistenti di quanto credevamo. Si tratta di ripensare un modo di concepire il nostro ruolo su questo pianeta che è emerso circa 10.000 anni fa. Se vai a leggere il libro della Genesi, nei primi passaggi c’è un mandato chiaro: Adamo mangia la mela che pende dall'albero della conoscenza e viene cacciato dall’Eden, ma al contempo Dio gli dona il dominio su ogni forma di vita che abita la sua creazione. Questo mandato ha informato la nostra civiltà per tutta la sua durata, dalle civiltà agricole, al medioevo, alla rivoluzione industriale, e ha portato all'Età del Progresso, e la grande verità taciuta è che è il set di valori dell'Età del Progresso ci sta portando all'estinzione: non si tratta solo di  combustibili fossili e gas climalteranti, è il nostro modo di concepire l'economia, di organizzare le nostre forme di governo, come ci rapportiamo alla natura, come cresciamo i nostri figli, come concepiamo la scienza. Il motivo per cui non ne parliamo e che quando ci fermiamo a pensarci la nostra mente va in blackout, ci paralizziamo.

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È una sfida cognitiva immensa, perché ci richiede di ripensare tutto da capo, di immaginare un modo di abitare il pianeta interamente nuovo; ma ci tocca farlo con gli strumenti culturali che abbiamo, che sono a loro volta il prodotto di questo sistema economico e produttivo. Come pensi possiamo uscirne?

Siamo totalmente disorientati, perché è qualcosa che non riusciamo nemmeno a visualizzare: l'ultima estinzione di massa è stata 65 milioni di anni fa, ora rischiamo di perdere metà delle specie terrestri nell'arco di vita di una persona nata oggi. Ma cominciamo a rendercene conto, e io credo ci siano già in atto due cambiamenti di sguardo: da un lato stiamo prendendo atto che il pianeta è molto più potente di quanto pensavamo e noi molto di meno; dall’altro le nuove generazioni (dai millennial in giù) stanno per la prima volta protestando a livello globale identificandosi a livello di specie. Ho assistito agli incontri di Fridays for Future in varie nazioni e ho capito una cosa: queste generazioni si percepiscono come appartenenti ad una specie a rischio, al di là delle ideologie o delle appartenenze religiose, e si mettono in relazione alle altre creature terrestri come pari: è un enorme cambiamento a livello di coscienza.

Nel libro individui due momenti di innesco della nascita dell’Età del Progresso nella diffusione dell’orologio meccanico e della prospettiva lineare nell’arte…

Se ci pensi sono due avvenimenti che hanno inciso sulla nostra percezione del tempo e dello spazio. Le grandi rivoluzioni infrastrutturali della Storia accadono quando emergono nuovi paradigmi a livello comunicativo, energetico e logistico. Di fatto agiscono su aspetti simili a quelli fondamentali per la sopravvivenza di un organismo: un mezzo per comunicare, una fonte di energia e una qualche forma di mobilità o motilità. Le rivoluzioni dell’infrastruttura umana forniscono una protesi tecnologica che consente a grandi numeri di persone di riunirsi in assetti economici, sociali e politici più complessi; in questo senso sono come «organismi sociali» su vasta scala. Ma c'è una falsa credenza da scardinare: non sono i governi a determinare le infrastrutture, semmai sono le infrastrutture a determinare il tipo di modelli governativi che possano emergere; lo stesso vale per l'economia: non è l'assetto economico a determinare l'emergere di una certa infrastruttura, semmai è il contrario.

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L’Età del Progresso è anche l’Età dell’Efficienza, credo che questo aspetto sia centrale: tendiamo a pensare che l’essere umano sia naturalmente predisposto all’efficienza, quando non è così…

L'efficienza consiste nell'estrarre maggiore valore dalle risorse naturali alla maggiore velocità possibile e col maggior risparmio di tempo: l'introduzione dell’orologio meccanico, e dunque di un "tempo meccanico" diverso da quello legato alla luce solare, ha consentito a questo parametro di essere applicato a un intero sistema produttivo. Ma in natura non esiste niente di simile all'efficienza, in natura semmai esiste l'adattività. Perciò, un'azienda tenderà a privilegiare «processi di produzione snelli» e una «logistica e catene di rifornimento snelle», riducendo tutti quei costi supplementari che potrebbero invece essere impiegati per garantire l’operatività in caso di un’emergenza: stoccaggio di scorte in eccedenza, predisposizione di ulteriori impianti produttivi di riserva che possano essere messi in funzione all’istante, mantenimento di una forza lavoro ausiliaria etc. Ci siamo resi conto di quanto questo approccio fosse poco resiliente quando è arrivato il Covid ci siamo ritrovati con carenza di mascherine e carta igienica. La natura segue parametri diversi: gli ecosistemi sono resilienti, diversificati, ridondanti, e la ridondanza consente di essere resilienti.

Poi c’è la questione della produttività, altro baluardo della società occidentale (e anche di molta politica che si definisce progressista)?

Anche la produttività in natura non esiste, semmai esiste la rigeneratività. Per 250.000 anni, ossia il 95% del tempo che abbiamo trascorso su questo pianeta, ci siamo adattati alla natura costantemente, 10.000 anni fa abbiamo cambiato passo: un clima stabile e temperato ci ha consentito di sviluppare questa illusione di poter controllare la natura, e che fosse la natura a doversi adattare a noi. Ed è così che sono emersi i fusi orari globali e i concetti di efficienza e produttività. Dopodiché abbiamo cambiato il concetto di spazio. Un tempo nessuno avrebbe mai pensato che si potesse rivendicare un diritto di proprietà sulle acque, o sull'atmosfera, o sulla litosfera; la prospettiva lineare nell'arte ha contribuito a creare questa idea per cui esiste una distanza tra l'essere umano e l'oggetto osservato, dunque tra essere umano e Natura, ha facilitato un'oggettificazione dello spazio.

John Locke, il grande filosofo politico disse: la terra lasciata alla Natura è puro scarto, non ha valore, ne guadagna solo se viene lavorata dall'essere umano per estrarne capitale. Oggi noi esseri umani siamo meno dell'1% della biomassa globale ma usiamo fino al 24% della produzione primaria del pianeta, ed entro il 2050 arriveremo a quasi la metà. Non è chiaramente sostenibile: dobbiamo passare dall'efficienza all'adattatività, dalla produttività alla rigeneratività.

Nel libro spieghi come per garantire la sopravvivenza della civiltà umana in un’epoca di crisi climatica ci sia bisogno di una Terza rivoluzione industriale. Che direzione seguirà questa transizione?

Con la Prima rivoluzione industriale, nel XIX secolo, la stampa azionata a vapore e il telegrafo, l’abbondanza di carbone e le locomotive sulle reti ferroviarie nazionali si composero in un’infrastruttura unitaria che ha portato all’ascesa degli habitat urbani, delle economie capitalistiche e dei mercati nazionali sorvegliati dai governi degli Stati-nazione. Nella Seconda rivoluzione industriale l’elettricità centralizzata, il telefono, la radio e la televisione, il motore a combustione interna, il petrolio a basso costo e il trasporto a motore endotermico lungo le reti stradali nazionali concorsero a creare gli habitat suburbani, la globalizzazione e le istituzioni di governo globale. Il mondo che è emerso da quella rivoluzione industriale è oggi nella sua fase finale, una straziante fase finale che abbiamo visto manifestarsi prima con la crisi del 2008 e ora con la Guerra in Ucraina. L'infrastruttura per la Terza Rivoluzione Industriale sta già emergendo: a livello comunicativo con l'avvento di internet; a livello energetico con la rivoluzione elettrica, e in particolare con l'emergere della produzione solare. Di qui ai prossimi vent'anni praticamente chiunque avrà modo di generare energia elettrica solare, a partire dai tetti e dai vetri delle proprie case, e sempre più gente sarà nella posizione di poter condividere quell'energia con chi non è ancora in grado di produrla. Avremo una sorta di rete elettrica globale che consentirà di condividere l'energia prodotta nei vari fusi orari.

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E come per le altre rivoluzioni, la transizione non sarà soltanto di tipo energetico…

Di fatto, ci stiamo muovendo dal capitale finanziario al capitale ecologico, dalla produttività alla rigeneratività, dal PIL all'indice di qualità della vita (IQV), dalle esternalità negative alla circolarità, dalla proprietà intellettuale all'open source, dalla globalizzazione alla glocalizzazione. Ti faccio un esempio, a proposito di glocalizzazione: Mario Cucinella, un architetto italiano, ha sviluppato un software che consente di costruire un edificio in creta utilizzando la stampa 3D: poiché il materiale necessario può essere trovato praticamente ovunque e il software può essere condiviso con facilità, un sistema simile consente di costruire abitazioni resilienti e a costi accessibili in diverse parti del mondo. Ma ci stiamo anche muovendo dalla geopolitica una politica della biosfera. In un mondo fossile la geopolitica è fondamentale, perché c'è bisogno di un enorme apparato militare per controllare i depositi di combustibile che sono concentrati in punti specifici. Ma già oggi stiamo passando a un diverso tipo di paradigma, basti pensare a come gli eserciti stiano cambiando le proprie missioni: nessuno vuole parlarne, ma nel mio paese, gli USA, l'esercito dedica più tempo ai disastri climatici che alle guerre, perché i disastri climatici sono così frequenti e drammatici che devono intervenire in operazioni di soccorso, di ricostruzione. Le infrastrutture delle prime due rivoluzioni industriali erano centralizzate, non poteva essere diversamente, era estremamente dispendioso estrarre e trasportare carbone, erano necessari investimenti ingenti che dovevano avere ritorni significativi, il risultato è che oggi abbiamo 8 persone che hanno accumulato una ricchezza pari agli averi di 3,6 miliardi di persone.

Se un pilastro di questa rivoluzione sarà internet e le telecomunicazioni, però, il mondo hi-tech sembra ancora parecchio centralizzato…

È vero che le prime istituzioni di questa terza rivoluzione sono Microsoft, Dell, Google, Facebook, ma questa centralizzazione non durerà per molto, e il motivo è che ci sono troppi dati. Con l'internet delle cose stiamo creando una sorta di sistema nervoso globale, abbiamo trilioni di sensori che ci consentono di monitorare il clima e l'ambiente, così da poterci adattare, ma allo stesso tempo stiamo monitorando molti altri aspetti, la quantità di dati sta diventando enorme, troppo grande da gestire in modo centralizzato. Per esempio: se sei su un veicolo autonomo che sta per andare a sbattere e mandi quei dati a un data center centralizzato e lontano, il passaggio è troppo lento, quell'auto va a sbattere. La risposta sono i data center periferici. Questo tipo di resilienza sarà particolarmente cruciale per quanto riguarda la prevenzione e la risposta ai fenomeni meteorologici estremi. Durante un blackout, ad esempio, sarà utile poter passare da una rete centrale a una locale, anche solo per il periodo di blocco del servizio, è qualcosa che già si sta realizzando, in Europa e in Cina, e consente una maggiore fluidità della gestione dati e una maggiore adattività.

Da come parli sembra che tutte queste transizioni siano in qualche modo inevitabili, ma abbiamo ogni giorno prove di come invece incontrino resistenze, sia da parte del mondo politico che del settore privato. Abbiamo visto a COP27 quanto le resistenze del settore degli idrocarburi possano fare la differenza. Come pensi si potrà superare una barriera così ostinata?

Parliamoci chiaro, per quanto i presupposti per questa transizione esistano già, e stia già emergendo una nuova infrastruttura, non sono inevitabili; ci sono così tanti interessi che muovono nella direzione opposta. Chi ha in mano l'industria degli idrocarburi sa di essere al capolinea: non stanno investendo in nuove esplorazioni per trovare combustibili fossili, stanno piuttosto cercando di massimizzare i profitti dalle riserve esistenti. Sanno che non potranno competere che il sistema energetico che sta emergendo, perciò cercano di minimizzare le perdite. Basti pensare che il collasso dell'industria dei combustibili fossili è previsto attorno al 2028. È tutto molto frustrante perché sappiamo che ci sono i soldi e c'è il mercato, quello che manca è la volontà politica, e manca anche perché non riescono a vedere il quadro generale. Il più grande problema, a mio avviso, è che dobbiamo ripensare che cosa sia un essere umano.

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Nel mondo occidentale ognuno di noi è convinto di essere un attore autonomo, siamo razionali, distaccati, siamo convinti che la natura sia a nostra disposizione e che possiamo dominarla, continuiamo a ripetere che sia necessario essere più razionali che emotivi. Ma gli esseri umani non sono così, gli esseri umani sono ecosistemi.

Immagino tu non stia parlando in modo figurato…

No, non è una metafora, lo intendo in senso letterale. Significa che in ogni momento della nostra esistenza il pianeta ci entra dentro in forma di molecole, dall’aria e dall'acqua, persino gli elementi della litosfera entrano nel nostro organismo ogni giorno e diventano parte dei nostri tessuti e i nostri organi. Prendi i nostri denti: sono composti da fosforo che proviene dalle montagne, l'acqua degrada le montagne e tutti gli elementi di quelle montagne diventano sedimento nel suolo, successivamente le piante assorbono quegli elementi e gli animali metabolizzano le piante e alla fine il fosforo finisce nei nostri denti. Non solo, bisogna anche tenere conto che le cellule del nostro corpo cambiano in continuazione, ogni corpo umano ha in media solo dieci anni di vita, eccezion fatta per il cristallino del nostro occhio, i neuroni del nostro cervello e il fosforo dei nostri denti, il resto del  corpo viene periodicamente rimpiazzato. Il nostro intero scheletro viene sostituito ogni dieci anni. Una ricerca dell'NIH ci ha rivelato che, sorpresa, non siamo da soli nel nostro corpo: siamo ecosistemi completi, ci sono 3 miliardi di organismi nel tuo corpo che non ci appartengono, ci sono protisti, archei, fungi, batteri, virus, più di metà delle cellule del corpo umano non sono umane.  Possiamo considerarci individui ma non possiamo considerarci autonomi dall'ambiente che ci circonda, perché quell'ambiente è dentro di noi e ci interagiamo in continuazione.

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La nostra tendenza a considerarci individui autonomi, in effetti, è un delle ragioni per cui ci risulta difficile prendere atto della crisi climatica e della portata trasversale di quanto sta accadendo…

Il fatto è che la gente è spaventata a morte; in particolare le giovani generazioni, e la tendenza è a  ritirarsi nel mondo digitale. Per il 92% del tempo la gente del mio paese sta al chiuso, con 7 ore in media trascorse davanti a uno schermo. Intanto il mondo fuori è sempre più colpito da inondazioni, incendi, siccità, uragani, ondate di calore. Ma l'idea che siamo ecosistemi cambia l'intero modo di concepire la nostra vita sulla Terra. Il punto è che le specie e gli ecosistemi della Terra non si fermano ai confini dei nostri corpi,  al contrario fluiscono continuamente in entrata e in uscita. Non solo, come ogni altra specie, siamo fatti di una moltitudine di orologi biologici che adattano continuamente i nostri ritmi corporei interni a quello circadiano del giorno e a quelli lunare, stagionale e annuale che corrispondono alla rotazione giornaliera della Terra su sé stessa e al suo moto annuale intorno al Sole. In più, abbiamo campi elettromagnetici, nel nostro corpo; e i campi elettromagnetici endogeni ed esogeni della terra influiscono su cellule, tessuti e organi, incidendo sui processi fisiologici. In un esperimento interessante, Rütger Wever ha chiesto a dei volontari di scendere in bunker sotterranei, uno era schermato dai campi elettromagnetici, mentre l'altro no. Quando le persone passavano del tempo nel secondo bunker il loro metabolismo si manteneva pressoché identico e allineato al ciclo delle 24 ore; nell'altro bunker, quello schermato, le persone perdevano il ritmo circadiano e presentavano notevole irregolarità metaboliche.

Questo dice molto di quanto sia fuorviante la nostra illusione di controllo sull’ambiente che ci circonda, e di quanto inconsistente sia ogni tentativo di separare essere umano e natura. Dove possiamo trovare le risorse per superare questa idea così radicata nella nostra cultura e così a lungo connessa allo sviluppo tecnologico e scientifico?

È una tara tipicamente occidentale. La cultura occidentale non ha mai accettato che i campi elettromagnetici potessero avere questa influenza sui processi biologici; per contro, le religioni orientali (taoismo, buddismo, induismo) l'hanno intuito correttamente. Ma dobbiamo cambiare anche il nostro approccio scientifico. Il metodo scientifico tradizionale riprende l’idea di Francis Bacon secondo cui la capacità tipica dell'essere umano è di separare il proprio Io dalla Natura e studiarla da lontano per ricavare conoscenza oggettiva. C'è un nuovo metodo che sta emergendo, in occidente come in oriente, una generazione più giovane di scienziati, si chiama "teoria dei sistemi socio-ecologici adattivi complessi" (CASES). Si tratta di passare da un approccio che isola e analizza delle singole componenti, a uno che si concentra sulle relazioni di quelle componenti a livello sistemico. Un approccio necessariamente interdisciplinare.

Di fatto dobbiamo riapprendere il mondo e al contempo forgiare un nuovo concetto di essere umano. Ma prima che ciò sia possibile, credo, saremo costretti a trovare un modo di sollevare il velo, per usare una metafora. I nostri limiti cognitivi e culturali ci rendono difficile prendere atto dell'attuale degradazione del suolo, delle risorse idriche, della biosfera. Non è un caso che stia emergendo un nuovo tipo di attivismo – è il caso di Just Stop Oil e Ultima Generazione – che punta proprio a squarciare il velo di normalità illusoria che ci illude di stare vivendo in un mondo in equilibrio. Pensi che l’attivismo odierno si stia muovendo nella direzione giusta?

Come dicevo, uno dei cambi di paradigma più importanti è che le nuove generazioni abbiano iniziato a identificarsi come specie: chi protesta chiede sostanzialmente un mondo che ci consenta di sopravvivere. Ma c’è bisogno di una spinta verso una nuova storia, e spesso, quando si tratta di immaginare un mondo diverso, come prima risposta tende a emergere il tradizionale orizzonte socialista o marxista. Ma voglio essere chiaro su questo punto: Marx non aveva alcun problema con la produttività e la ricchezza. Il fatto è che non si tratta di decidere tra capitalismo e socialismo. Quello di cui abbiamo bisogno è una narrazione che ci porti a superare l'Età del Progresso. Perché ciò avvenga è necessario che le persone si impegnino attivamente, ma per farlo devono entrare in contatto con il mondo reale, ed è importante che non si limitino a farlo con la mediazione di uno schermo. Nel libro L'ultimo bambino nei boschi Richard Louv racconta di quando ha chiesto a un bambino di quarta elementare perché non giocasse all'aperto, e quello ha risposto: perché non ci sono prese elettriche. Non si può apprendere la natura da dietro uno schermo, bisogna uscire, perché questo apprendimento non ha solo a che fare con la vista. Se il primo passo che dobbiamo fare è renderci conto che il pianeta è molto più potente di noi, il secondo è che non siamo le creature razionali che crediamo, siamo creature empatiche.

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Per ricucire la separazione tra essere umano e natura (o cucirci all’interno di una nuova idea di Natura), è necessario ragionare meno come individui. Che ruolo ha l’empatia in questo processo?

Schopenauer diceva che quando ci troviamo a sperimentare la magnificenza e la potenza della natura sulle prime siamo terrorizzati, ma poi ci provoca un senso di meraviglia, stimola la nostra immaginazione e con l'immaginazione abbiamo la trascendenza, e allora riusciamo a percepirci come parte di un quadro più grande. Viene spontaneo domandarsi come abbiano fatto gli esseri umani, queste piccole creature implumi e inermi, a sopravvivere a ere glaciali e avversità terribili. Il fatto è che siamo la specie più adattabile del pianeta, con l'eccezione dei batteri e virus, perché? Per il linguaggio, e per via della nostra capacità empatica, che annulla le separazioni illusorie tra individui e ci dà esperienza dell'interconnessione. E. O Wilson sosteneva che la biofilia è una caratteristica innata intimamente intessuta nel nostro DNA: un senso originario che ci fa capire come il nostro benessere individuale e collettivo dipenda dalla nostra relazione profonda con tutto ciò che è vivo. Le giovani generazioni si stanno muovendo verso la biofilia e stanno cominciando a empatizzare con il resto della vita sulla terra. Ma tutte queste forme passate di attaccamento, come quella verso il concetto di stato-nazione, rischiano di produrre una resistenza, per questo le persone che sono cresciute nell'Età del Progresso rischiano di vedere la biofilia come una minaccia. Mentre parliamo ci sono guerre religiose e guerre ideologiche. Ma non deve andare per forza così, ci si può considerare come appartenenti a un'unica specie e mantenere una propria ideologia, religione e specificità culturali.

Stavo riflettendo su quanto della struttura attuale del nostro assetto mondiale resisterà nei prossimi anni e decenni. Nel tuo libro parli di come il concetto di democrazia rappresentativa sia destinato a cambiare; a questo proposito, mi domando: che fine farà il concetto di stato-nazione? E come cambierà quello di confine, considerando che le migrazioni climatiche renderanno inevitabile riconcepirlo?

I disastri climatici non si curano dei confini politici, interagiscono con gli ecosistemi, per questo è necessario superare i confini politici e attuare una governance delle bioregioni che condividono ecosistemi comuni per prepararci, soccorrere, riparare e adattarci. Se si condivide un ecosistema comune non si può far prevalere i confini politici. Qui negli Stati Uniti su questo fronte stiamo facendo passi importanti. Se pensi al nord-ovest americano: lo stato di Washington, l'Oregon, la British Columbia, Manitoba condividono lo stesso ecosistema, a prescindere dai confini statali. C'è poi la bioregione dei Grandi Laghi, che è importante perché in quei territori si raccoglie il 20% di tutta l'acqua dolce disponibile sul pianeta. Anche in Cina stanno cominciando a fare qualcosa di simile, nel 2021 il Ministero dell'Ecologia ha annunciato la creazione di 8 ecoregioni, nell'ambito di un piano che chiamano "Ecological Civilization". L'intensificarsi dei disastri climatici sta rendendo sempre più chiaro che c'è bisogno di una governance bioregionale, coadiuvata da assemblee di cittadini, per affrontare impatti devastanti e trasversali.

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Una volta chiuso il tuo libro, osservando la realtà in cui mi trovo oggi, in questa congiuntura storica, e in particolare in questo paese, noto quanto siamo ancora così ossessionati dall’efficienza che trattiamo il problema climatico come un’equazione da risolvere; del tipo: se siamo riusciti a mandare l’uomo sulla Luna, a creare vaccini e a comprimere tempo e spazio attraverso le telecomunicazioni, riusciremo anche a mantenere questo sistema produttivo senza consumare il pianeta. Come si potrà scardinare un’idea simile nel lungo termine? 

Nel 2020 Taylor Swift ha sorpreso tutti pubblicando due dischi che sembravano usciti dal nulla, ma che erano il prodotto dell'isolamento da Covid, che l'ha spinta a cercare un contatto più profondo con la natura. Non credo fosse qualcosa di programmato, credo anzi che rispecchi una riscoperta di molti. Con l'avvento di internet molte persone hanno iniziato a cercare una realtà surrogata dentro a uno schermo, perdendo così il contatto con la natura, che infatti ha iniziato a sparire dai libri, dai film, e anche dalla musica. Lei è ha ribaltato questa situazione incorporando la natura nelle sue canzoni. Credo che in Europa siate più abituati a fare scampagnate, e abbiate l'abitudine di andare nella natura durante il weekend; esistono quindi dei momenti nella vostra settimana in cui ristabilite il contatto con la natura, ritrovate quella meraviglia che innesca l'immaginazione e quella trascendenza che aiuta a comprendere il nostro reale posto nel mondo. Sembra un discorso teorico, ma ti assicuro che è molto pragmatico.

Prima si parlava di Italia. So che hai un rapporto speciale con il nostro paese, nel libro del resto citi diversi ricercatori e studi italiani, immagino tu sia al corrente di quanto le ricadute della crisi climatica siano già visibili qui da noi; come immagino tu sia al corrente della situazione politica in cui ci troviamo. 

Ho passato molto tempo in Italia, più di qualsiasi altro paese europeo, ho interloquito con diversi dei vostri primi ministri, da Romano Prodi in avanti, perciò sono al corrente di quello che sta succedendo. Ed è un peccato, perché credo che l'Italia sia un paese unico, ci sono più risorse culturali e immaginazione in Italia che in qualsiasi altro posto, avete tutto quello che serve per essere l'avanguardia di questa transizione. L'Italia del resto è sempre stata all'avanguardia nelle transizioni culturali, perciò è così frustrante vedere che il paese che ha ricevuto più fondi per la transizione dalla Commissione Europea non stia procedendo a ritmo spedito. Ci vuole un partito politico che porti avanti queste istanze, io mi sono confrontato sempre sia con il centrodestra che con il centrosinistra, per 30 anni, ma da questo punto di vista non ho visto limiti comuni.

Sono contento che tu lo dica, perché purtroppo durante le ultime elezioni la crisi climatica è stata praticamente ignorata dai maggiori partiti, nonostante il disastro della Marmolada, la siccità, gli incendi; e ora, invece di muovere passi verso un contesto di resilienza, si tende addirittura a fortificare un sistema fossile ritardando ulteriormente un'azione climatica sempre più urgente, il tutto bollando come utopiche o ideologiche proposte del tutto pragmatiche e convenienti. Che tipo di futuro vedi per il nostro paese?

Sai cosa? L'ho detto più volte, ma lo ripeto: sarei più che felice di sedermi a un tavolo con tutti partiti politici e mostrare loro cosa stiamo realizzando in tutta Europa, in Cina e ora anche negli Stati Uniti, così capiscono che non c'è alcuna utopia. Questa transizione sta avvenendo, e l'Italia resta sempre più indietro. Qualcuno deve alzare la voce. Siete davanti a un potenziale Nuovo Rinascimento: dovete alzare la voce, farvi sentire, la politica italiana non può più ignorare la realtà. I partiti italiani non stanno facendo solo la guerra tra loro, stanno distruggendo il futuro di questo paese.

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