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Marcello Bruzzese ucciso mentre era sotto protezione: “La ndrangheta entrata nella casa dello Stato”

A due anni dall’omicidio di Marcello Bruzzese, ucciso mentre era in regime di protezione dello Stato, sua sorella Elisa (nome di fantasia) ci racconta come si vive da collaboratori di giustizia. Quando è avvenuto l’omicidio lei e Marcello vivevano in località protetta. Tutto era cominciato quando il loro fratello Girolamo, boss di ndrangheta, si era ‘pentito’. “Mio fratello ucciso nella casa dello Stato. Come facciamo a sentirci al sicuro?”
A cura di Angela Marino
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Marcello Bruzzese era il fratello di Girolamo, ‘pentito' di ndrangheta passato dalla parte dello Stato e diventato collaboratore di giustizia. È stato ucciso il 25 dicembre 2018 a Pesaro, città dove viveva con la sua famiglia con la nuova identità. Nonostante tutto i sicari lo hanno trovato e ucciso. A due anni dal delitto ‘Elisa' (nome di fantasia) sua sorella ci racconta di come si vive (pericolosamente) da collaboratori di Giustizia.

Elisa, lei vive in regime di protezione?

Sono in una località protetta da 17 anni. Anche Marcello lo era, o almeno doveva esserlo quando è stato ucciso.

Ma qualcosa non ha funzionato.

Mia cognata, moglie dell'altro fratello, collaboratore di giustizia, aveva smarrito un documento com la nuova identità e ne aveva chiesto uno nuovo. Dal Nop (Nuclei operativi di protezione) avrebbero dovuto rimpiazzarlo con uno nuovo, ma così non è stato e lei, sprovvista della sua copertura, è stata costretta a usare i vecchi documenti. Vivendo nella stessa città di Marcello, a Pesaro, dove tutti sapevano che erano parenti, la sua identità è stata svelata. Marcello è diventato identificabile.

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Ed è stato vittima di un agguato.

Proprio così. È successo a Natale, non potrò mai dimenticare quando ho ricevuto la notizia, non me l'aspettavo. Da due anni attendiamo che arrestino i responsabili, ma le indagini, si sa, sono protette dal segreto. Così possiamo solo limitarci ad aspettare.

Come si vive da collaboratori di giustizia? 

In una prigione invisibile, abbandonati, con un minimo sussidio e senza le garanzie di riservatezza e protezione che ci si aspetterebbe. Ci chiamano parassiti dello Stato, ma noi, che mettiamo a rischio le nostre vite per collaborare, percepiamo un aiuto minimo, abbiamo un'identità precaria e siamo, di fatto, in gabbia. Anche chi come me, o mio fratello Marcello è incensurato e non ha mai preso neanche una multa.

Come prese la notizia che suo fratello sarebbe diventato collaboratore dello Stato, anni fa?

Me lo aspettavo, lo aveva detto più volte e poi noi familiari sapevamo che quella non era una vita per lui. È un collaboratore di un certo peso, grazie a lui, hanno fatto arresti importanti.

Non immaginava che in famiglia avreste potuto avere una vittima, sotto regime di protezione?

Mai. Avevo fiducia nello Stato, nel sistema. Conoscendolo, ne ho poi visto i limiti, gli errori, le contraddizioni. La ndrangheta ha ucciso mio fratello nella casa dello Stato, loro non sono stati capaci di proteggerlo.

Si sente in pericolo? 

Come potrei non sentirmi a rischio? Lo sono, lo sono i miei figli, lo siamo tutti. La mia più grande paura è che saremo i prossimi.

"Il programma di protezione è basato sulla mimetizzazione – aggiunge Luigi Bonaventura,  il collaboratore di giustizia e fondatore del comitato sostenitori dei collaboratori e testimoni di giustizia – ma senza un cambio di identità completa e un inserimento socio lavorativo. Le famigerate località protette non esistono senza questi presupposti. Marcello Bruzzese era solo il fratello di un collaboratore di giustizia, che lascia una vedova, dei figli, e non viene nemmeno considerato una vittima di ‘ndrangheta".

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