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Opinioni
Cambiamenti climatici

L’unica vera violenza è quella di chi nega e provoca il cambiamento climatico

La crisi climatica è un classico esempio di violenza strutturale. Per questo le azioni non nonviolente del movimento climatico sono così importanti: smascherano una violenza invisibile.
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A cura di Fabio Deotto
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Cambiamenti climatici

C'è un motivo se gli attivisti climatici che in queste settimane stanno protestando nelle varie città europee ci tengono a rimarcare che le loro sono azioni integralmente non-violente, ed è che sanno che un istante dopo che avranno lanciato una latta di vernice, o bloccato una strada, o occupato un villaggio sgomberato, i media e la politica faranno a gara a etichettarli come vandali, eco-teppisti e fanatici violenti.

La nonviolenza è uno dei cardini dell'azione del movimento climatico, per rendersene conto è sufficiente calcolare il numero di persone che abbiano subito violenza durante queste dimostrazioni (tutti attivisti, aggrediti dalle forze dell’ordine o da persone che cercavano di interrompere la dimostrazione) e quante opere o edifici abbiano subito danni permanenti (nessuno, considerando che viene utilizzata vernice atossica e lavabile). O anche solo guardare per intero uno dei video diffusi sulle piattaforme social, che mostrano come gli attivisti avvisino le autorità prima di ogni blocco per far sì che eventuali ambulanze non rimangano imbottigliate.

Nonostante ciò queste persone vengano accusate sistematicamente di utilizzare metodi violenti da governi e compagnie che sono di fatto responsabili di una violenza effettiva. Non mi riferisco tanto ai poliziotti che a Luetzerath hanno caricato e manganellato gli occupanti, o alle escavatrici che hanno fatto a pezzi le abitazioni storiche e le case sugli alberi costruite per il presidio, ma piuttosto a un tipo di violenza strutturale e sistemica, che causa ogni anno enormi danni e migliaia di morti.

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Il caso Exxon: cinquant'anni di bugie

Lo scorso 12 gennaio uno studio pubblicato da Naomi Oreskes e colleghi sulla rivista Science ha rivelato l’esistenza di documenti che provano come il colosso petrolifero americano ExxonMobil fosse a conoscenza dei rischi connessi al consumo di combustibili fossili almeno dagli anni Settanta. Non solo sapevano che un aumento di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera avrebbe determinato un incremento delle temperature globali, avevano anche azzeccato le previsioni su come questo incremento si sarebbe sviluppato. È sufficiente confrontare le curve dei grafici di previsione con quelle degli effettivi incrementi di CO2 e temperature globali, infatti, per rendersi conto di come gli studi condotti internamente dall’azienda fossero sostanzialmente accurate e in linea con le previsioni dell’IPCC.

ExxonMobil dunque è stata tra i primi a conoscere l’entità del problema, ciò nonostante ha deciso di continuare con le proprie attività di estrazione e raffinazione. Almeno fino a quando, verso la fine degli anni Ottanta, il problema climatico si impose all’attenzione del pubblico: a quel punto la più potente azienda petrolifera al mondo si impegnò attivamente a screditare quanti premevano per un contenimento dell’espansione fossile.

Che Exxon, come altre aziende fossili, abbia investito energie e denaro per sabotare l’azione climatica non è una novità. I documenti raccolti nel 2015 dalla campagna ExxonSecrets parlano chiaro: tra il 1998, anno in cui fu siglato il Protocollo di Kyoto, e il 2015 l’azienda ha finanziato con oltre 33 milioni di dollari decine di persone e organizzazioni che si sono poi impegnate a diffondere narrazioni negazioniste e a screditare le campagne di informazione climatica. Non è un caso che Exxon oggi sia al centro di diverse cause climatiche, e per quanto i suoi funzionari si sbraccino per assicurare che l’azienda abbia sempre agito in modo cristallino, i documenti reperiti da Oreskes e colleghi fanno calare ogni maschera: sebbene fin dagli anni Settanta gli studi condotti internamente rivelavano che la combustione di idrocarburi avrebbe causato “drammatiche ricadute ambientali”, ancora nel 2013 l’allora CEO della compagnia Rex Tillerson sosteneva tranquillamente che ci fossero ancora incertezze riguardo all’impatto dei combustibili fossili.

È davvero deplorevole che l'azienda non solo non abbia tenuto conto dei rischi impliciti in queste informazioni, ma abbia invece scelto di sostenere idee non scientifiche per ritardare l'azione, probabilmente nel tentativo di fare più soldi", ha dichiarato al Guardian Natalie Mahowald, scienziata del clima della Cornell University.“Se includiamo gli impatti dell'inquinamento atmosferico e del cambiamento climatico, le loro azioni hanno probabilmente avuto un impatto negativo su migliaia o milioni di persone", ha aggiunto

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La violenza strutturale della crisi climatica

Non possiamo prevedere con esattezza quanti e quali danni farà la crisi climatica di qui ai prossimi decenni (per quanto possiamo prevedere quali limiti planetari verranno superati e che tipo di degradazione comporteranno), in compenso sappiamo che tipo di danni abbia fatto negli scorsi decenni e che tipo di degradazione stia comportando oggi. Sappiamo, ad esempio, che le ricadute della crisi climatica hanno già colpito l’85% della popolazione terrestre; sappiamo che già oggi il 37% delle morti legate alle ondate di calore sono attribuibili al cambiamento climatico; sappiamo che la crisi climatica è attualmente un’emergenza sanitaria, che incide sull’insorgenza di malattie cardiovascolari e infettive, che esacerba le problematiche psicologiche e influisce sull’aumento dei casi di suicidio; sappiamo che almeno 2 miliardi di persone vivono in luoghi privi di adeguata fornitura idrica e che più di 4 miliardi affrontano situazioni di scarsità idrica per almeno un mese l’anno; sappiamo che la crisi climatica sta compromettendo la produzione di cibo e aumentando il rischio di conflitti, e che per queste ragioni già oggi almeno 20 milioni di persone hanno dovuto abbandonare il posto in cui vivevano.

Quando veniamo a sapere che una persona è stata ferita o uccisa, o costretta a lasciare la casa in cui ha sempre vissuto, o a rinunciare al cibo e all’acqua, o a vedersi licenziata senza giusta causa, o indotta a suicidarsi, non esitiamo a mettere sul tavolo il termine violenza; e questo perché è possibile individuare un responsabile diretto di quella violenza. Nel caso della crisi climatica, però, tracciare questa connessione è praticamente impossibile, dal momento che i responsabili sono sempre indiretti, sono difficilmente circoscrivibili a un solo attore, e il più delle volte nemmeno prendono atto di come questa sofferenza sia conseguenza delle loro azioni.

Nel 1969, il sociologo norvegese Joahn Galtung coniò il termine “violenza strutturale” per indicare quel tipo di violenza che non si costituisce come un atto diretto nei confronti della corporalità o della psicologia di un individuo: “Quando un marito picchia la moglie abbiamo un chiaro caso di violenza personale; ma quando un milione di mariti mantengono un milione di mogli in condizioni di subalternità e ignoranza c’è violenza strutturale. Allo stesso modo, in una società in cui l’aspettativa di vita è due volte più elevata nelle classi più elevate rispetto a quelle più basse la violenza viene esercitata anche se non ci sono attori che possano essere ritenuti direttamente responsabili"

Esempi di violenza strutturale sono il razzismo, il sessismo e il classismo integrati in un tessuto sociale come il nostro. Ma questo concetto torna utile anche a inquadrare gli effetti della crisi climatica, per capire perché è utile leggere l’antropologo medico americano Paul Farmer, il quale, concentrandosi sulle condizioni delle popolazioni marginalizzate e subalterne, scrisse: “La loro salute precaria è il risultato di una violenza strutturale: la colpa non è né della cultura né della pura volontà individuale, ma piuttosto di processi e forze storicamente date (e spesso economicamente guidate) che cospirano per limitare l'agenzia individuale. La violenza strutturale si abbatte su tutti coloro il cui status sociale nega loro l'accesso ai frutti del progresso scientifico e sociale.”

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Violenza invisibile e nonviolenza visibile

Se la crisi climatica fosse un fenomeno indipendente dalle azioni umane, non si potrebbe tecnicamente parlare di violenza strutturale. Ma poiché sappiamo che è direttamente imputabile all’aumento della concentrazione di gas serra, provocato in massima parte dalla crescita industriale dei paesi più ricchi, e poiché chi aveva (e ha) la possibilità di accelerare l’abbandono dei combustibili fossili è da decenni al corrente di questo nesso, allora possiamo concludere che le aziende fossili che si impegnano a mantenere in vita un sistema inquinante, e i governi (come quello italiano) che ritardano l’azione climatica, sono corresponsabili dell’inevitabile violenza strutturale che la crisi climatica infliggerà negli anni a venire e alle prossime generazioni.

“Identificare il cambiamento climatico come un problema di violenza strutturale – scrive Kevin J. O’Brien in The Violence of Climate Change  – significa osservare che alcuni esseri umani stanno egoisticamente alterando l’atmosfera e che questi cambiamenti stanno causando dolore e sofferenza”.

Abbiamo visto come la violenza strutturale, la traiettoria che connette responsabili e vittime è praticamente invisibile. La crisi climatica non fa eccezione: le ricadute della crisi climatica possono essere registrate e scientificamente attestate, ma l’aumento delle temperature globali tende a esacerbare problematiche esistenti, più che crearne di nuove, e questo rende facile eliminare la questione climatica dall’equazione; come rende ancora più facile ignorarla a chi ancora non ne sta subendo gli effetti in maniera drammatica

È per questo che le azioni degli attivisti climatici sono importanti: causando un disturbo temporaneo ma dirompente, interrompono il flusso della quotidianità creando uno squarcio nella nostra illusione di normalità, rendendo visibile la violenza strutturale che già molte persone stanno subendo (anche in Italia). Non andremmo al lavoro, o a un museo, o alla prima della Scala con la stessa tranquillità se sapessimo che tipo di mostro stiamo nutrendo mantenendo intatto un sistema fossile. Le azioni climatiche dirompenti servono precisamente a sabotare questa pericolosa tranquillità.

In questi giorni, mentre i documenti citati da Oreskes e colleghi incendiano nuove polemiche, e mentre gli attivisti (tra cui anche Greta Thunberg) continuano ad essere arrestati e denunciati, Exxon Mobil ha annunciato l’intenzione di espandere la sua raffineria a Beamont in Texas, con l’obiettivo di aggiungere 250.000 barili al giorno (bpd) alla sua attuale produzione di 369.000 bpd, nel frattempo si prepara anche a lanciare il suo quinto progetto estrattivo in Guyana. Questi progetti riempiranno ulteriormente le casse del colosso petrolifero e andranno ad alimentare ulteriormente la violenza strutturale che sta flagellando il pianeta, eppure al momento rientrano ancora nell’alveo della legalità, e soprattutto, della normalità.

Quando vediamo degli attivisti bloccare la strada che stiamo percorrendo, o imbrattare di vernice la porta del Senato, o barricarsi in case di risulta per impedire la costruzione di una miniera, dovremmo sforzarci di superare gli automatismi e il fastidio, e ricordare che questa loro nonviolenza così visibile serve a smascherare una violenza invisibile; e con essa i suoi responsabili.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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