
Riceviamo e pubblichiamo la lettera di un nostro lettore, un docente precario, che ha voluto "rispondere" alle recenti dichiarazioni del ministro dell'Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara rispetto ai casi di "boicottaggio" dell'esame di Maturità. Sono almeno due gli studenti che, nei giorni scorsi, hanno dichiarato di aver scelto di non sottoporsi al classico orale della maturità per protesta: i ragazzi di fatto contestano l'attuale sistema di voti, che ignora l'aspetto umano, ma dinanzi a queste proteste Valditara ha fatto sapere di voler prendere provvedimenti.
"Lo studente che, non per giustificato motivo, per esempio per motivi di salute, intenzionalmente non si presenterà all'orale oppure mostrerà un atteggiamento non partecipativo, rifiutandosi di rispondere alle domande degli esaminatori, dovrà ripetere l'anno. Stiamo studiando una norma ad hoc", ha chiarito lo stesso ministro a Fanpage.it. Di seguito, il punto di vista di un professore che – scrive – "parla da dentro": "Non si educa con la bocciatura come minaccia. Si educa con l’ascolto, anche quando fa tremare le nostre certezze. Si educa con la presenza, anche quando lo studente sceglie l’assenza. Si educa con il dubbio, anche quando ci viene più facile affermare l’autorità".
La lettera di un docente precario a Fanpage.it
Gentile Ministro Valditara,
ho letto con attenzione le sue parole in merito al gesto dei due studenti che, in forma di protesta pacifica e consapevole, hanno deciso di non presentarsi all’orale dell’Esame di Stato per contestare il carattere competitivo e performativo del sistema scolastico. Lei ha definito il loro gesto “inaccettabile” e ha dichiarato che “chi si comporterà così, verrà bocciato”. Eppure, mi chiedo: è davvero questa la risposta educativa che uno Stato dovrebbe offrire a chi esprime un disagio profondo, non con rabbia o violenza, ma con una scelta pensata e simbolica?
La scuola non è solo luogo di valutazione: è — o dovrebbe essere — luogo di ascolto, dialogo, formazione del pensiero critico. Mi chiedo se, davanti a una generazione sempre più disillusa, fragile e spesso invisibile agli occhi degli adulti se non per casi di cronaca drammatici, sia pedagogicamente accettabile rispondere con una minaccia.
Don Milani, che in molte scuole italiane viene ancora oggi celebrato come simbolo di un’educazione inclusiva e non selettiva, scriveva: “La scuola siede tra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. Perciò deve essere insieme conservatrice e innovatrice.”
Oggi, quegli studenti hanno portato un pezzo di futuro. Si può essere d’accordo o meno con le modalità, ma non si può fingere di non vedere la domanda radicale che pongono: “Che scuola vogliamo?”
Paulo Freire, nella “Pedagogia degli oppressi”, ci ricorda che: “L’educazione è un atto d’amore, per questo è un atto di coraggio.” Punire chi osa contestare non è coraggioso. È comodo. È molto più difficile — ma infinitamente più educativo — fermarsi ad ascoltare, fare domande, interrogare sé stessi prima degli altri.
D’altronde, gli stessi corsi di aggiornamento che noi docenti siamo tenuti a frequentare (sotto il suo Ministero), parlano continuamente dell’importanza dell’empatia, del clima scolastico, della motivazione intrinseca, della centralità dello studente. E allora mi chiedo: vale solo finché gli studenti si adeguano? O quei principi valgono anche — e soprattutto — quando uno studente ci mette in discussione? Scrivo queste righe da insegnante precario da dieci anni, oltre che da poeta.
In dieci anni ho cambiato scuola ogni anno, come accade a tutti noi precari. Questo mi ha dato — e mi dà — un’ampiezza di sguardo concreta e vissuta sul disagio giovanile: ho incontrato centinaia di classi, migliaia di studenti, dalle periferie urbane ai licei del centro. Le loro paure, i loro silenzi, le loro richieste non dette, io le ho ascoltate ogni giorno tra i corridoi, nei colloqui con i genitori, negli sguardi persi dei nostri studenti.
Non parlo dall’alto di una cattedra o dal chiuso di un ufficio. Parlo da dentro. E se oggi alzo parlo, è perché il mio punto di vista merita rispetto e ascolto tanto quanto quello di un ministro. Non si educa con il bastone, Ministro. Non si educa con la bocciatura come minaccia. Si educa con l’ascolto, anche quando fa tremare le nostre certezze. Si educa con la presenza, anche quando lo studente sceglie l’assenza. Si educa con il dubbio, anche quando ci viene più facile affermare l’autorità.
Se due ragazzi si sono rifiutati di sostenere l’orale per dire che non si sentono a casa in questa scuola, allora forse il vero esame è il nostro. E a differenza sua non ho la certezza di non star fallendo la mia missione educativa se mi impone di bocciare uno studente che esprime democraticamente e civilmente il suo dissenso pagando già il prezzo di una valutazione finale penalizzata.
Con rispetto, ma senza paura, un insegnante precario, Davide Volpe