
La nostra redazione riceve lettere e testimonianze relative a storie che riguardano il mondo del lavoro. Decidiamo di pubblicarle non per dare un'immagine romantica del sacrificio, ma per spingere a una riflessione sulle condizioni e sulla grande disparità nell'accesso a servizi essenziali. Invitiamo i nostri lettori a scriverci le loro storie cliccando qui.
Dopo le testimonianze pubblicate nei giorni scorsi di lavoratori nel settore alberghiero e della ristorazione, come quella dello chef Marco Marinelli o di Abdin, cuoco stagionale in Puglia, la nostra redazione sta ricevendo diverse lettere di persone che raccontano storie tristemente simili. Come quella di Gigi da Bari, che vi proponiamo oggi.
La lettera a Fanpage.it
Sono vent’anni che vivo in cucina. Vent’anni di notti insonni, mani segnate dal fuoco, profumi che non mi hanno mai lasciato addosso, sacrifici e gioie che solo questo mestiere sa regalare. Quando ho iniziato, la ristorazione era un’arte dura e fiera: c’era disciplina, c’era rispetto, c’era un senso di appartenenza che oggi faccio fatica a ritrovare.
Il mio percorso è stato fatto di gavetta, di lunghi silenzi in cucina e di pochi sorrisi concessi solo a fine servizio, quando la sala si svuotava e rimaneva la stanchezza dolce dell’aver dato tutto. Ho visto cambiare mode, ingredienti, tendenze: dal trionfo delle nouvelle cuisine alle ossessioni per la molecolare, fino alla mania dei social che oggi rischia di ridurre la cucina a spettacolo più che sostanza.
Ma la verità, quella che mi pesa dentro, è che non è cambiata solo la ristorazione: è cambiata la generazione che dovrebbe ereditarla. Oggi i ragazzi che entrano nelle cucine arrivano disorientati, privi di fondamenta. Non è colpa loro: nessuno gli ha dato le basi. Le scuole alberghiere, che una volta erano fucine di mestiere e carattere, oggi sembrano aver perso la forza di formare. È come se ci fossimo dimenticati che il cuoco non nasce sui palchi televisivi, ma tra i banchi, con i coltelli consumati e le pentole annerite.
Per questo credo che noi chef con esperienza, anche chi ha guadagnato le stelle, dovremmo tornare lì, nelle aule delle scuole, tra i corridoi che odorano di caffè e di brodo, e ricominciare da capo. Perché non possiamo permetterci di lasciare un buco nero generazionale, un vuoto che rischia di inghiottire il futuro dell’ospitalità italiana. Un Paese che ha fatto del cibo e dell’accoglienza la sua bandiera non può scivolare nell’anonimato.
Il mio percorso mi ha insegnato che l’ospitalità è prima di tutto umanità: non è solo un piatto servito alla perfezione, ma è uno sguardo, una mano che porge, una storia che si racconta attraverso il cibo. Oggi, purtroppo, la macchina dell’ospitalità sembra inceppata. C’è una mancanza di visione, una corsa all’apparenza, un’ossessione per il risultato immediato che ha spogliato questo mestiere del suo senso più vero: la dedizione paziente e quotidiana.
Vent’anni fa eravamo ragazzi che imparavano sbagliando, che rispettavano i maestri, che sapevano che ogni servizio era una lezione. Oggi vedo giovani stanchi prima ancora di iniziare, confusi da un mondo che li illude con promesse di gloria facile. E sento che il nostro dovere è riportarli sulla strada giusta, quella fatta di fatica e di soddisfazioni autentiche, di studio, di artigianato e di umiltà.
Non so se avrò le forze per altri vent’anni così, ma so che quello che ho vissuto non può andare perso. Se questo è un buco nero generazionale, allora noi dobbiamo accendere la luce: nelle cucine, nelle scuole, nelle coscienze. Perché la ristorazione italiana non è un mestiere: è un patrimonio culturale. E un patrimonio si custodisce, si tramanda, si insegna. Sempre.