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backstair / Shalom, la comunità degli orrori

La lettera a Fanpage.it dopo l’inchiesta su Shalom: “Anche mia sorella ha subito le stesse cose”

La testimonianza della sorella di una ragazza che ha vissuto dentro la comunità Shalom nove mesi: “Ha subito le stesse cose mostrate nel video, punizioni, vessazioni, è stata una esperienza terribile”
A cura di Backstair
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Dopo l’inchiesta del team investigativo Backstair sulla comunità terapeutica Shalom, in provincia di Brescia, in cui circa ex ospiti raccontano di essere stati sottoposti a umiliazioni, punizioni e violenze, alla redazione di Fanpage.it sono arrivate decine di segnalazioni di persone che hanno trascorso un periodo dentro la comunità di Suor Rosalina Ravasio, ma anche di familiari e persone vicine agli ex ospiti.

Mi piacerebbe poter dare voce a mia sorella”, scrive in una mail una donna che, dopo aver visto l’inchiesta, ha preso coraggio e ha deciso di farsi avanti. Questa testimone indiretta di quanto accade dentro Shalom ci chiede di rimanere anonima, per rispetto della sorella, che oggi sta scontando una pena in carcere. La sorella, più piccola di chi ci scrive di otto anni, d’ora in avanti la chiameremo Giulia.

L’ingresso in comunità

Giulia entra in comunità a 13 anni, nel giugno del 2008 e uscirà a marzo dell’anno dopo. “Mia sorella in quel periodo viveva una situazione psicologica molto delicata. Quando è nata c’era qualcosa che non andava, è sempre stata seguita da psicologi. Ha fatto delle visite neurologiche, ma non è mai stato dato un nome a quello di cui soffre. Con l’adolescenza la situazione è peggiorata: era più aggressiva, scappava di casa, era incontrollabile”.

Gli episodi dell’inchiesta

La sorella di Giulia racconta che, scappando di casa, la 13enne aveva iniziato a fare uso di alcol e sostanze, per questo i genitori hanno ritenuto necessario un intervento: “Presi dalla disperazione di quel momento, hanno iniziato a cercare una soluzione”. I genitori di Giulia vengono a conoscenza della comunità di Suor Rosalina Ravasio a Palazzolo sull’Oglio tramite una collega del padre, che a Shalom faceva la volontaria.

“Si sono informati e così sono andati a fare un primo colloquio. Sembrava tutto bellissimo. Si sono fidati e affidati”, racconta ancora la sorella. “Sapevamo che la struttura accoglieva anche minori. Mia mamma mi ha raccontato che quando sono andati al primo colloquio, c’erano questi ragazzi che hanno offerto loro del tè per farli sentire a loro agio”. Al primo colloquio i genitori e Giulia incontrano lo psichiatra della comunità, ma è al secondo incontro che fanno la conoscenza della responsabile di Shalom: “Mi ricordo che mia madre mi ha raccontato che Suor Rosalina in quell’occasione disse che sarebbe stata lei a prendersi cura di mia sorella”.

Dopo due colloqui, Giulia ha il permesso di entrare in comunità: “È stata portata lì a sua insaputa, perché in quel momento era davvero ingestibile. Mia madre conserva ancora la carta d’identità con la residenza lì, all’indirizzo della comunità di Palazzolo”. I collaboratori di Suor Rosalina informano i genitori che non avrebbero visto la figlia per i primi tre mesi di permanenza in comunità: “Dicevano che evitare i contatti avrebbe permesso a mia sorella di avere un distacco dalla famiglia e quindi di ambientarsi più facilmente”. Durante quei primi tre mesi non c’erano contatti: “Zero. Mia mamma portava dei sacchetti con dei vestiti ogni tanto, ma li lasciava a un volontario. Non aveva mai il permesso di vederla”.

Al quarto mese, i genitori di Giulia ricevono una telefonata dalla figlia: “Non si incontrano nemmeno al quarto mese, ma mia sorella può chiamare a casa per far sapere come sta. Non era da sola, c’era la suora con lei che la controllava durante quella telefonata”. Dalla chiamata “sembrava tutto normale, ma si capiva che non era da sola, era condizionata dalla presenza della suora”. Dopo quella chiamata, i genitori continuano a non vedere la figlia.

L’intervento degli assistenti sociali

Al sesto mese di permanenza in comunità succede qualcosa che cambia il percorso di Giulia dentro la Shalom: “Mia sorella continuava a scappare anche dalla comunità e c’è stata una denuncia perché una notte si è fermata a dormire in una proprietà privata”. Dopo circa un mese sono intervenuti gli assistenti sociali, che sono andati a bussare a casa di Giulia: “Hanno saputo in quel momento dai miei genitori che mia sorella si trovava in comunità e hanno voluto vedere come stesse”. I servizi sociali riescono così a ottenere un colloquio con Suor Rosalina e da quel momento i rapporti tra la comunità e la famiglia di Giulia si raffreddano: “Durante le poche telefonate che mia madre riusciva a fare in comunità, uno dei collaboratori della suora le diceva ‘ecco, quando intervengono gli assistenti sociali rovinano il nostro lavoro’”, ci racconta ancora la sorella di Giulia.

Gli assistenti sociali, come ci spiega ancora, si rendono conto che l’ambiente in cui vive la ragazzina non è quello giusto per lei: “Nelle persone intorno a lei c’era qualcosa che non andava secondo loro e per questo hanno insistito per farla uscire”. Quando i servizi sociali mettono piede in comunità per la seconda volta, “hanno sguinzagliato i cani contro di loro. Lo hanno fatto per intimorirli, nonostante avessero un appuntamento per far uscire mia sorella”, dice ancora la sorella.

Punizioni e psicofarmaci 

Dopo nove mesi Giulia torna a casa e rivede la sua famiglia, a cui racconta, insieme agli assistenti sociali, quello che ha visto e subito in comunità. “Quello che ci disse in quel momento corrisponde a tutte le testimonianze delle persone che avete ascoltato voi”, ci dice la sorella. “Mia sorella ci ha parlato della preghiera, ha detto che era una cosa da sfinimento: c’era sempre da pregare. Ci ha raccontato degli psicofarmaci che le venivano somministrati, la bombardavano di medicine al punto da non capire più niente. A proposito dei lavori, ci ha detto che lavorava anche tutta la notte, aveva l’impressione di essere dentro una specie di catena di montaggio, e quando era sedata, con la bava alla bocca, era comunque costretta a tenere gli occhi aperti perché doveva continuare a lavorare, a 14 anni. Le punizioni erano continue: le facevano tagliare la legna fuori al freddo con la sega, a mani nude, aveva tutte le mani spaccate. Quando faceva i lavori all’aperto, le vecchie le fumavano addosso e poi le spegnevano le sigarette addosso. È stato traumatico ascoltare queste cose”.

La famiglia di Giulia, nonostante la testimonianza della figlia, sceglie di non denunciare la comunità: “Gli assistenti sociali ci hanno sconsigliato di portare avanti qualsiasi tipo di azione legale, perché conoscevano bene la comunità e ci hanno parlato di questa struttura come di una struttura potentissima, con dei legami importanti per cui noi non avremmo potuto mai far niente”.

Un punto di non ritorno

Per la sorella di Giulia l’esperienza dentro Shalom ha rappresentato un punto di non ritorno nella vita della sorella: “Era piccolissima e questa cosa l’ha segnata tantissimo, già solo per il fatto di non potersi fidare più di nessuno e non poter entrare più in una comunità. È stata una sfortuna essere capitati proprio lì. Abbiamo fatto tantissimi tentativi in altre comunità, e chissà se una di queste non potesse essere quella giusta per lei. Il problema è che Shalom è stato il primo tentativo e l’ha traumatizzata al massimo”. Anche l’uso dei farmaci, per la sorella di Giulia, ha fatto sì che, una volta uscita, i problemi con le sostanze continuassero: “La sua tendenza verso le sostanze è solo peggiorata da quel momento. I farmaci l’hanno devastata”.

Ascoltare la sorella parlare di quei nove mesi di vita alla Shalom “è terribile, perché mi rendo conto di quello che ha vissuto. Ed era piccola e sola. Lei è molto lucida oggi quando ricorda tutto quello che è successo, purtroppo. Parlava di questa Suor Rosalina, si ricorda tutto e lo racconta come se volesse dirmi ‘ti rendi conto di quello che mi è successo?’”.

La sorella di Giulia è arrabbiata con la comunità: “Non è possibile che possa avere un potere così grande questo posto, tanto da distruggere le persone. Penso e ripenso a come una struttura del genere ha potuto influire sul percorso di mia sorella. Chissà oggi che cosa saremmo potute riuscire a fare. Quella che ha pagato tutto è stata lei. Ora, però, non si può più tornare indietro”.

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