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Opinioni

L’inchiesta della Borromeo: ovvero ascoltare due ragazze e denunciare una generazione

Piccoli esperimenti di giornalismo aneddotico: come osservare i nostri figli, partendo dai diagrammi di Nate Silver per arrivare alle inchieste di Beatrice Borromeo su Il Fatto Quotidiano.
A cura di Massimo Mantellini
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Come sintetizza Nate Silver in questa semplice infografica (non è importante sapere chi sia Nate Silver, diciamo che oggi è un giornalista blogger americano sulla bocca di tutti quelli che si occupano di informazione), il giornalismo può essere quantitativo o qualitativo (cioè può fornire al lettore dati da elaborare o puntare su sintesi talentuose estratte da una notizia), ma può anche essere rigoroso o aneddotico, empirico o costruito per un fine. Mentre osservavo questa immagine e leggevo il lungo manifesto di apertura di fivethirtyeight, il nuovo progetto web di Silver, mi è tornata alla mente una polemica italiana di questi giorni proprio sul giornalismo aneddotico. Anche il direttore di questo giornale gli ha dedicato un editoriale, perfino io, come molti altri, ne ho parlato sul mio blog qualche giorno fa.

Il giornalismo aneddotico a cui mi riferisco è quello della famosa o famigerata “inchiesta” che Beatrice Borromeo sta pubblicando a puntate sul Fatto Quotidiano e che tante polemiche ha suscitato. Le ragioni per cui l’inchiesta di Borromeo vada iscritta nella periferia più profonda della tabella di Silver sono perfino banali da essere ricordate. La giornalista racconta le esperienze di un paio di adolescenti, le correda di un linguaggio crudo e senza perifrasi e poi, con un passaggio logico acrobatico, le eleva a canone utile a descrivere abitudini e costumi di una intera generazione di giovani. Il giornalismo aneddotico è fatto così: ha molti punti di incertezza; si presta a numerose critiche ma ha anche un grande vantaggio. Può essere praticato da chiunque. Anche da chi non ha la pretesa di chiamare un simile esercizio pubblico di scrittura “inchiesta”. Così ora, per imitare Borromeo, vi racconto in un paragrafo cosa ho visto domenica scorsa al parco della mia città.

È una bella giornata di sole. Nel tavolo accanto al nostro (sono a pranzo con mia moglie e mia figlia in un bistrò all’aperto che si affaccia sul parco cittadino), ci sono due ragazzi sui sedici anni. Sono soli, vestiti alla stessa maniera. Hanno felpe col cappuccio e calzoni da jogging, Nike alte ai piedi. Li ascolto parlare. Usano il linguaggio della loro età (non troppo diverso da quello che usavo io tanti anni fa), molti vaffanculo e altre parolacce messe lì a caso. Si capisce che sono amici, probabilmente compagni di classe. Si vogliono bene – mi pare – parlano di ragazze e si prendono in giro. Uno dei due, di cui non capisco il nome, ha una testa di capelli castani, gli occhi sottili e la lingua svelta. L’altro ha tratti asiatici molto marcati, si chiama Cheng, parla un italiano indistinguibile dal mio. Anche mia moglie un po’ di nascosto li osserva – so cosa pensa. È soddisfatta, sorride e mi dice sottovoce: finalmente un po’ di integrazione anche qua: è la scuola, tutto parte da lì. Solo la scuola potrà aggiustare questo Paese.

I due compagni di scuola telefonano a due loro amiche. Una si chiama Camilla, l’altra Carlotta: cercano di invitarle a pranzo al parco. Le ragazze però non rispondono (è domenica, io me le immagino a tavola con i genitori), così provano con qualche messaggio; digitano a testa bassa ognuno dal proprio smartphone economico. Ridono fra loro, si ripetono l’un l’altro le parole che stanno scrivendo. “Siamo io e Cheng, siamo al parco, venite?” Dopo poco Camilla li richiama: chiama il ragazzo castano il quale, per ridurre l’imbarazzo, dentro il telefono con il vivavoce inserito dice: “Sai, Cheng voleva chiederti se venivi a pranzo qui con noi al parco”. Cheng dall’altro lato del tavolino urla ridendo che non è vero. Camilla ringrazia, dice che non può, dice, magari ci sentiamo più tardi. Cheng e l’altro sono contenti, dicono ok, avverti anche Carlotta, ci sentiamo dopo. Io penso al milione di chiamate che ogni giorno facciamo per dire a qualcuno ti richiamo fra poco. Nel frattempo sono arrivate le patatine ed i wurstel. È una domenica di sole di inizio primavera in una cittadina come tante altre.

Secondo il giornalismo aneddotico, dai risultati di questa personalissima ”inchiesta” appena conclusa, mi sentirei di suggerire che là fuori è pieno di ragazzi fantastici. Hanno nomi normali, buone maniere e bei sentimenti. Hanno scarpe uguali, qualcuno ha un nome italiano. Qualcun altro si chiama Cheng ed ha capelli neri e dritti come spaghetti. Mentre Cheng ed il suo amico mangiano patatine digitando sul cellulare, noi ci alziamo e, a Beatrice Borromeo piacendo, attraversando il parco torniamo a casa.

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Massimo Mantellini da oltre un decennio scrive di internet e di tecnologia sul web e sulla carta stampata, trattando in particolare i temi del diritto all'accesso, della tutela della privacy e della politica delle reti. Editorialista di Punto Informatico fin dalla sua nascita, nel 1996, collabora con L'Espresso. Dal 2001 cura un blog personale, Manteblog
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