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Eva Mikula a Belve: “Fu difficile denunciare Savi, all’epoca lo amavo. Non sono stata complice, ho parlato”

Eva Mikula è stata ospite della puntata di Belve Crime in onda martedì 10 giugno. La donna, che per due anni fu la compagna di Fabio Savi, uno dei tre fratelli che facevano parte della banda della Uno bianca, ha raccontato la sua storia: “Sono stata descritta come complice, ma potevo stare zitta. Invece ho parlato. Non vedo opportunismo nella mia scelta”
A cura di Eleonora Panseri
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Eva Mikula e Francesca Fagnani.
Eva Mikula e Francesca Fagnani.

"Qualsiasi cosa mi avesse chiesto, l'avrei fatta, avevo paura". A parlare è Eva Mikula, la donna che per due anni fu la compagna di Fabio Savi, uno dei tre fratelli che facevano parte della banda della Uno bianca. Tra il 1987 e il 1994 commisero 24 omicidi e ferirono altre 114 persone. Quando Savi fu arrestato lei era con lui.

Mikula è stata intervistata durante la puntata di martedì 10 giugno di Belve Crime e insieme alla conduttrice Francesca Fagnani ha ripercorso la vicenda. La donna da molti è stata considerata “una complice”, la "compagna del killer", una "dark lady" mentre lei si è sempre definita una “vittima”.

Di origini romene la donna era fuggita di casa, dal padre violento e aveva trovato lavoro in Ungheria. "Pulivo i bagni, facevo la donna delle pulizie nei ristoranti. Dopo qualche mese ero diventata cameriera ma ero minorenne e facevo fatica a trovare lavoro", ha ricordato.

Nel febbraio del 1992 incontrò Savi, un uomo più grande di lei di 15 anni. “Tutto ciò che era nuovo, era attraente. Mi ha attratto ciò che mi mancava. All’epoca credevo fosse amore, oggi lo traduco in una mancanza di una figura paterna", ha spiegato la donna.

Lui lasciò la moglie e il figlio, Mikula arrivò in Italia e andò a vivere insieme a lui. I due vivevano a Torriana, in provincia di Rimini.

Come ha ricordato durante l'intervista, lui l'avrebbe resa edotta dei crimini della banda, ma lei non sapeva "dove era la bugia e dove la verità”. Savi "era dottor Jekyll e mister Hyde, – ha detto ancora – A modo suo mi ha amato, sennò non mi avrebbe detto quello che sapevo”.

“Per lui io ero un trofeo, la bella ragazza da mostrare. Mentre lui per me era la persona che mi aveva dato una possibilità in più. Venivo da una vita in cui non avevo nemmeno da mangiare, ci voleva poco a rendere la vita bella”, ha aggiunto.

Fagnani le fa notare come lei sia scappata ma tornata da Savi diverse volte e che abbia testimoniato contro di lui solo dopo la cattura.

"Avevo paura. – ha spiegato Mikula – Secondo lei, un criminale di questo peso, quando una persona confessa i suoi crimini, la lascia andare? Rappresenterà sempre un pericolo. Non ci sono altri testimoni in vita, era meglio tornare nella tana del lupo".

"Lui era un uomo che la sera ti menava e la mattina ti portava un fiore. Mi puntava la pistola, diceva che mi avrebbe uccisa e gettata in un burrone perché in Italia nessuno sapeva di me", ha ricordato ancora.

All'epoca, dice Mikula, amava Savi. "Denunciarlo è stato davvero drammatico, avevo 19 anni e dipendevo da lui in tutto. Ho amato la parte buona di lui, quel Fabio che ho incontrato in Ungheria, non l'uomo che poi avevo dentro casa".

Mikula si è difesa contro chi l'ha sempre definita come "complice della banda" e a chi sostiene che avrebbe potuto denunciare prima, non solo dopo l'arresto suo e di Savi, quando collaborò facendo nomi e ricostruendo i movimenti della banda.

Le sue parole, anche secondo gli inquirenti, furono determinanti per completare il quadro. Nonostante ciò, l’opinione pubblica è sempre stata divisa.

"Sono stata descritta per tanti anni come complice, potevo stare zitta, invece ho parlato. – ha ribadito – Non vedo opportunismo nella mia scelta, mi sarei evitata tante cose. Ho salvato delle vite. Chiunque può dire quello che vuole su di me, ma nel mio cuore so la verità".

Al termine dell'intervista Mikula ha detto: "Io attendo delle scuse dai familiari delle vittime. Non adesso, ma quando la verità sull‘individuazione della banda sarà ufficiale. Mi hanno insultata per una vita. Io potevo arrivare al punto di non esserci più. Per 30 anni sentirmi dire: ‘Vergognati', è stata istigazione al suicidio. E questo ha inciso molto sulla mia vita".

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