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Cannabis light, rivenditori contro sentenza della Cassazione che vieta commercio: “Andiamo avanti”

Nonostante l’interpretazione restrittiva della legge 242 del 2016 da parte della Cassazione, negozianti e produttori di cannabis light non hanno intenzione di fermarsi. Intanto, l’unico modo per risolvere del tutto la situazione, sarebbe quello di un intervento legislativo che possa finalmente fare chiarezza e dare norme certe ai negozianti.
A cura di Mario Catania
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“E’ un’interpretazione restrittiva della legge 242 del 2016, che non chiarisce e aumenta la confusione”, è il primo commento dell’avvocato Giacomo Bulleri, esperto di settore. “La cannabis light nella legge non era prevista e questo lo sapevamo. Non compete comunque alla Cassazione stabilire cosa sia lecito da un punto di vista commerciale, le spetta invece stabilire se una condotta sia reato oppure no. Viene ribadito che è reato vendere i derivati dalla canapa salvo che non abbiano efficacia drogante, quindi rimette in sostanza la valutazione al giudice caso per caso”. Questo significa una potenziale moltiplicazione dei sequestri e delle relative sentenze che, in caso di pareri difformi, potrebbero paradossalmente riportare la questione proprio alla corte di Cassazione. Il vero problema è che non è stato dato un parametro chiaro per la valutazione: “Se avessero detto quale soglia di THC applicare avremmo avuto un problema in meno, ma le motivazioni non lo specificano, anche se la tossicologia forense, riguardo l’efficacia drogante, ha come limite da 30 anni lo 0,5% di THC”.
Secondo l’avvocato le motivazioni ignorano l’impianto del diritto sulla canapa, “perché c’è anche una normativa comunitaria che chiarisce cosa sia la canapa industriale, inquadrata come prodotto agricolo. Ora bisognerà vedere alla prova dei fatti quali parametri saranno utilizzati dai tribunali”.  Il problema principale, secondo Bulleri, “nasce dal fatto di volersi ostinare ad applicare la normativa degli stupefacenti su un prodotto agricolo”.

“Non cambia molto rispetto a ciò che avevamo già intuito”, spiega Barbara Tommasi, portavoce dello storico grow shop Green Town di Milano sottolineando che: “Il punto è che non ci sono delle regole chiare e continueranno i controlli, nonostante la liceità di fondo della filiera. Per quanto ci riguarda noi siamo forti della sentenza che abbiamo appena avuto”. Il riferimento è a quello che è stato il primo processo ad un commerciante di cannabis light in Italia, che si è chiuso ad inizio luglio con l’assoluzione e la restituzione della merce sequestrata. “Anche se il rischio di altri processi rimane, noi andremo avanti: terremo poca merce in negozio e controlleremo bene le analisi dei relativi prodotti”.

Nel frattempo c’è stata anche la sentenza del tribunale del riesame di Genova che, dopo il sequestro di prodotti ad un commerciante di Rapallo, ha stabilito che la cannabis light non può essere sequestrata preventivamente ma, in caso di dubbio, si deve procedere prelevando singoli campioni da analizzare, dando come parametro per la “potenziale efficacia psicotropa” l’ormai famoso limite dello 0,5% di THC.

“Nulla di nuovo e di inaspettato”, racconta Luca Marola, storico antiproibizionista e fondatore di Easyjoint. “Le motivazioni sono solo la descrizione del processo logico-giuridico con cui i magistrati arrivarono alla decisione del 30 di maggio e nulla aggiungono alla decisione presa. Una decisione che ha creato confusione e incertezza anziché eliminarle”. Secondo Marola “Easyjoint nasce come azienda proprio perché dalla legge 242 del 2016 si desumeva che non potessero essere commercializzate le infiorescenze e oggi, dopo questa sentenza, le nostre motivazioni restano le stesse e quindi continueremo a vendere i nostri prodotti”. Infine, secondo Marola, “nelle motivazioni viene ricordato che è libertà del legislatore mettere mano alla legge, forse è suggerimento molto elegante per la politica”.

Il vuoto normativo in cui si è sviluppato il settore della cannabis light, nasce proprio dal fatto che la legge non norma le infiorescenze della pianta. Nella prima versione del testo della 242 del 2016 c’era un comma dedicato, che però è stato eliminato prima dell’approvazione finale. Oggi dunque, per risolvere la situazione, la via d’uscita non può che essere rappresentata da un intervento politico che dia delle norme certe per tutto il settore. E un’apertura in questo senso c’è stata dal senatore Mantero del M5S, che ha già depositato una proposta in Senato per inserire nella legge 242 la possibilità esplicita di vendere infiorescenze. "Quello che la sentenza dice in maniera più chiara è nelle prime battute, dove si legge che le leggi possono essere cambiate: sembra un chiaro invito al Parlamento ad affrontare la situazione per non distruggere una filiera che sta partendo. Oggi, insieme ad altri colleghi, abbiamo incontrato diversi agricoltori da tutta Italia. L'idea è che ora il Parlamento possa affrontare una modifica della legge per riconoscere la possibilità di vendere le infiorescenze e individuare le categorie merceologiche in cui devono rientrare. Se c'è la volontà politica la situazione si può affrontare in tempi brevi". Alla domanda se nel M5S ci sia o meno questa volontà, Mantero spiega che: "In tanti condivamo questa battaglia, non so quale sia la posizione del capo politico ma credo non si possa lasciar morire una filiera che ha fatturato 300 milioni di euro l'anno scorso e interessa migliaia di lavoratori, sono sicuro che Di Maio, che contatterò a breve, capirà la dimensione del fenomeno e non si tirerà indietro".

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