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Alitalia ancora nei guai: servono soldi e alleanze, ma i soci nicchiano

Alitalia vola in rosso e deve decidere che fare: in assenza di un aumento a fine anno le perdite porteranno il patrimonio netto ad un valore negativo. Ethiad non può salire sopra il 49%, i soci italiani hanno pochi soldi o voglia di impegnarsi, così…
A cura di Luca Spoldi
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Neanche il tempo di tirare il fiato, fino a Natale (perché dopo occorrerà vedere come il decreto varato nella notte dal governo sarà convertito in legge e se verrà esteso ad altre banche traballanti come Carige, BpVi, Veneto Banca e forse anche le quattro “good bank”) per la conclusione “felice”, si fa per dire, della vicenda Mps che un’altra perla dei gruppi tricolori torna al centro delle cronache per l’ennesima crisi.

Nuovamente sotto i riflettori è infatti Alitalia, che dopo anni di continui patimenti continua imperterrita a volare in rosso a dispetto dei tanti medici, più o meno competenti, chiamati al capezzale dell’ex compagnia di bandiera italiana. In un paese normale Alitalia semplicemente avrebbe già chiuso i battenti, o sarebbe stata rivoltata come un guanto da investitori capaci e dotati dei capitali necessari a rilanciarne l’attività, ma l’Italia non è evidentemente un paese normale e così nonostante gli sforzi di Ethiad, chiamata ad acquistarne il 49% nel 2014, la compagnia è rimasta in crisi.

La colpa originale di Alitalia è stata quella di essere sempre rimasta un’azienda pubblica gestita più sulla base di interessi politici che di una qualsiasi razionalità economica e la “privatizzazione” pilotata da Silvio Berlusconi nel 2008 con la creazione “spintanea” della cordata di “imprenditori patrioti” riuniti in Cai, che servì all’epoca per tenere lontani tanto Air France-Klm quanto Lufthansa, non ha certo modificato in meglio la situazione.

I soci italiani, infatti, hanno avuto sin dall’inizio l’unico obiettivo di sfilarsi quanto prima e con quanti minori danni possibili da un investimento che non aveva e non ha alcuna sinergie rispetto alle proprie attività; così visto che a fine anno è atteso l’ennesimo bilancio in rosso (la perdita dovrebbe aggirarsi sui 400 milioni di euro, portando in negativo il patrimonio netto che a fine 2015 era pari a soli 52 milioni) nessuno di loro è intenzionato a bruciare altri capitali.

E qui casca l’asino: Ethiad i soldi ce li ha e la voglia di impiegarli pure, ma è un vettore extra-Ue e se superasse la soglia del 50% del capitale (come accadrebbe se fosse il solo socio a versare la propria parte) farebbe perdere lo status di compagnia Ue ad Alitalia e con esso i diritti di volo.

La stessa cosa accadrebbe se venisse convertito in azioni un prestito da 230 milioni, che infatti si pensa di trasformare in “strumenti partecipativi”, solo per guadagnare tempo, visto che la conversione potrebbe sbloccare (se si supereranno i dubbi di Unicredit al riguardo) un ulteriore prestito da 180 milioni erogato da Intesa Sanpaolo e dalla stessa Unicredit. Il caso Mps avrebbe dovuto insegnare che guadagnare tempo senza aver identificato una soluzione definitiva non serve a nulla, ma tant’è: per una certa Italia l’importante è cristallizzare le proprie rendite di posizione, siano esse politiche o economiche.

Per questo il governo fa pressioni nuovamente sui vertici di Generali, che alcuni anni or sono sottoscrissero 300 milioni di euro di obbligazioni con un rendimento del 5,5%, perché accetti una conversione “spontanea” che però a Trieste non piace visto che, diversamente che nel caso di Mps, non ci sarebbe alcun azzeramento del valore delle azioni esistenti, sicché l’intervento finirebbe col garantire l’investimento di Ethiad e dei “capitani coraggiosi” (ma non tropo) mettendo a rischio gli interessi della compagnia assicurativa.

Il problema di fondo resta comunque l’assenza di un valido piano industriale: fare soldi con una compagnia aerea non è facile e con uno scenario di tassi d’interesse e di prezzi dei carburanti visti in rialzo dopo anni di ribassi sarà ancora più difficile. Non basta, come ha provato a fare Ethiad, tagliare le rotte a breve raggio e cercare di sviluppare solo il lungo raggio: servono alleanze industriali, ma qui casca nuovamente l’asino, perché è esattamente ciò che è stato volutamente evitato nel 2008.

L’unico modo per sopravvivere per una compagnia come Alitalia che non è né una low cost né una major è fare ricorso a economie di scala, sopravvivendo come compagnia più piccola all’interno di un gruppo di più ampie dimensioni. Scommettiamo che l’Italia che non vuole cedere il comando, a costo di far colare a picco il resto del paese, si opporrà fino all’ultimo anche questa volta all’idea che il controllo della compagnia possa passare ad un gruppo “straniero” (segnatamente europeo)?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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