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Liberare Brusca non è doveroso ma giusto: lo Stato vince se convince un criminale a passare dalla sua parte

La liberazione di Giovanni Brusca non rientra soltanto in un mero scambio fra Stato e collaboratori di giustizia e riafferma una visone di Stato che punisce ma non vendica.
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La notizia, diffusa ieri, che Giovanni Brusca, l'uomo che azionò la bomba della stragi di Capaci e che si è autoaccusato di decine di altri omicidi, sia tornato a essere un uomo libero ha suscitato tanto scalpore. Sicuramente troppo vista la sua condizione di uomo ancora sotto la protezione dello Stato, proprio per la scelta di aver collaborato con la giustizia. Di fronte allo sdegno e alle polemiche, la risposta di molti – e autorevoli – esponenti dell'antimafia è stata: è il prezzo da pagare per poter avere informazioni sulle organizzazioni criminali che, altrimenti, non avremmo. E ha ragione Maria Falcone quando dice: "È la legge di Giovanni".

Ma Giovanni Falcone non vedeva nel collaboratore di giustizia soltanto un'opportunità per insinuarsi all'interno dei clan per capirne la gerarchia, il funzionamento e, ovviamente, gli illeciti. Ed è lui stesso a dirlo in quel testamento morale che affidò alla giornalista francese Marcelle Padovani: ‘Cose di cosa nostra', dove si definisce "una sorta di difensore di tutti i pentiti perché, in un modo o nell’altro, li rispetto tutti, anche coloro che mi hanno deluso". In quel libro l'uomo Falcone spiega come, nei loro confronti, sia andato oltre il suo ruolo di magistrato: "Io ho cercato di immedesimarmi nel loro dramma umano e, prima di passare agli interrogatori veri e propri, mi sono sforzato sempre di comprendere i problemi personali di ognuno e di collocarli in un contesto preciso".

E questo rapporto, a quanto riferisce, "ha influito profondamente sul mio modo di rapportarmi con gli altri e anche sulle mie convinzioni. Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni". Quello che sta trasmettendo Falcone non è una concezione meramente utilitaristica del collaboratore di giustizia. Per questo dare uno sconto di pena, condizioni di detenzione migliori e un aiuto nel reinserimento sociale non rientrano soltanto in una logica di scambio, bensì in una differente visione della pena.

Che oggi Brusca torni a essere un uomo libero proprio grazie a una legge voluta anche da una delle sue vittime è la dimostrazione di come lo Stato, quello che Falcone rappresentava, ha – e dovrebbe continuare ad avere – un'idea rieducativa e riabilitativa della pena, anche nei confronti del criminale che può apparire peggiore di altri. Brusca ha collaborato con la giustizia, mostrando di voler recidere le radici con il suo passato criminale, in questi anni ha mostrato un profondo cambiamento di vita e di aver fatto un percorso tale per cui può essere reinserito nella società. Perché dovremmo tenerlo ancora in carcere o costringerlo alla detenzione domiciliare? Perché ha ucciso Falcone, il piccolo Giuseppe Di Matteo e decine di altre persone? Quella, però, sarebbe vendetta e la fanno i mafiosi, non lo Stato.

In passato ho avuto modo di conoscere, per motivi professionali prima e personali poi, molti collaboratori di giustizia. Alcuni hanno tentato di usarmi, e qualche volta forse ci sono pure cascato, per ottenere migliori condizioni dall'ente statale che si occupa dei loro alloggi e dei sostegni economici. Nella maggior parte dei casi ho visto, però, uomini e donne che con impegno e sacrificio tentavano di ricominciare, di ripartire, di garantire una vita diversa ai loro figli. Mi è capitato di parlare con loro delle loro preoccupazioni per il futuro, ma anche di vederli capaci di affrontare con maggiore facilità della cosiddetta società civile i cambiamenti. Ricordo come un ex boss della Ndrangheta mi raccontò la transizione di genere del figlio con l'atteggiamento ottimistico di chi sa cosa vuol dire cambiare, gli occhi bassi di pluriassassini consapevoli che se i loro figli dovevano vivere in modo così precario la colpa era la loro. Ricordo la paura di autori di stragi di essere scoperti da vicini che, durante l'estate, gli lasciavano la chiavi di casa "perché di te mi fido".

Dare la libertà a queste persone che hanno abbandonato la criminalità, se lo hanno fatto veramente, per passare dalla parte dello Stato non è soltanto un mero calcolo di convenienza. È riaffermare che lo Stato punisce ma non vendica e credere che lo Stato non vince solo quando riesce a fermare un criminale, ma soprattutto quando lo convince a passare dalla sua parte.

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Giornalista dal 2012, attualmente sono caporedattore di Fanpage.it. Lavoro nell'editoria digitale dal 2009 e ho fatto un'esperienza in tv in Rai. Ho scritto tre libri inchiesta sulla criminalità organizzata. Nel 2019 ho vinto l'European Award Investigative and Judicial Journalism.
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