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Def 2015: Berlino e Bruxelles daranno il proprio via libera?

A poche ore dal varo ufficiale del Def 2015 si parla di molti, forse troppi, “tesoretti”. Ma oltre ai dubbi sulla credibilità di numeri e stime, resta da vedere se Bruxelles e Berlino saranno d’accordo, o cosa chiederanno in cambio del loro via libera…
A cura di Luca Spoldi
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Se la vita è tutta un quiz, come cantava Renzo Arbore, il Def 2015 sembrerebbe tutto un “tesoretto”: nel testo che salvo ulteriori colpi di scena dovrebbe essere approvato in serata dal consiglio dei ministri dovrebbe emergere una stima di quasi 6,5 miliardi di euro di minori oneri del debito pubblico grazie al continuo calo del costo marginale (il tasso pagato sull’ultima asta: stamane ad esempio per collocare 6,5 miliardi di euro di Bot a 12 mesi il Tesoro ha potuto offrire un rendimento lordo annuo di appena lo 0,013%, altri 7 punti base meno del mese precedente). Altrettanti miliardi, 6,5 ma spalmati nel triennio 2015-2017, dovrebbero derivare dall’utilizzo della clausola europea sulle riforme che consentirebbe un percorso di miglioramento del saldo strutturale più graduale (0,2 punti percentuali di Pil nel 2015, 0,1 nel 2016 e 0,3 nel 2017, quando si raggiungerebbe il pareggio strutturale di bilancio).

A poche ore dall’approvazione del documento è poi spuntato un ulteriore “tesoretto” di 1,5 miliardi individuato dai tecnici di Palazzo Chigi “nelle pieghe del Def” e forse qualche ulteriore centinaia di milioni (rispetto ai 10 miliardi inizialmente preventivati) potrebbe venire dalla rinnovata “spending review” affidata a Yoram Gutgeld e Roberto Perotti. Somme che potrebbero essere destinate al Welfare. Dando per scontato l’ottimismo programmatico e la fanfara su privatizzazioni (da cui dovrebbero venire proventi attorno agli 8-9 miliardi l’anno quest’anno e nei tre successivi, per un totale di oltre 30 miliardi di incassi) e riforme che “certamente” consentiranno alla ripresa (tuttora latitante) di accelerare il passo negli anni a venire, ove non si decidesse diversamente, l’unico “tesoretto” certo pare tuttavia quello derivante dall’ulteriore incremento della pressione fiscale, con un peso delle entrate fiscali in rapporto al Pil destinato a salire dal 43,5% di quest’anno al 44,1% l’anno venturo e il prossimo.

Ma al di là di numeri e “tesoretti”, quanto possano essere affidabili le previsioni del Def resta difficile da capire. Le “valutazioni prudenziali” di una crescita di appena lo 0,7% reale (e dell’1,4% nominale, ossia sommando l’inflazione) del Pil a fine anno appare intellettualmente onesta, ma la stima di un +1,1% degli investimenti sembra una scommessa (basata soprattutto su una ripresa del ciclo di sostituzione dei macchinari e attrezzatura e su una stabilizzazione del settore costruzioni), visto che il 2014 ha visto una loro contrazione del 3,3%.

Senza una ripresa decisa degli investimenti e un ulteriore recupero di produttività che, attenzione, significa un ulteriore taglio del costo del lavoro per unità di prodotto (in soldoni si punta a pagare di meno collaboratori e dipendenti a parità di lavoro, o a far lavorare gli stessi di più a parità di stipendi o compensi) il governo non ritiene evidentemente possibile rilanciare con più forza la crescita nel 2016, quando prevede che il Pil cresca in termini reali dell’1,3% anziché dell’1,1% previsto ancora lo scorso ottobre e in termini nominali addirittura del 3% (grazie a un’inflazione che risalirebbe dallo 0,2% del 2014 all’1,7% sotto la spinta del quantitative easing della Bce).

Alcuni, forse maliziosamente, sottolineano come proprio la crescita nominale del Pil prevista per l’anno venturo potrebbe non consentire di invocare ulteriormente la “circostanze eccezionali” per confermare un rinvio (al 2017) del pareggio di bilancio che secondo gli accordi sarebbe già dovuto essere raggiunto a fine di quest’anno, imponendo così il varo di misure di taglio del deficit che potrebbero però  minare nuovamente la crescita. Basteranno le promesse di riforme strutturali e privatizzazioni (terreni sui quali il governo ha in questi mesi accumulato i ritardi più clamorosi rispetto al crono programma che lo stesso Renzi ha più volte annunciato solo per poi modificare con annunci successivi) a tenere a bada Bruxelles e Berlino?

Qualcuno già suggerisce a Renzi di imitare Barack Obama, che ha annunciato un budget da quasi 4 mila miliardi di dollari giocato su tagli alle tasse per la classe media, incrementi di imposte per le grandi società e i più abbienti (sempre che i Repubblicani, in maggioranza al Congresso, non si mettano di traverso, cosa peraltro probabile), riforma dell’immigrazione e un rilancio in grande stile delle infrastrutture. Ma al di là dei numeri e dell'esito del confronto al Congresso, gli Stati Uniti sono un paese sovrano e governano la propria moneta, l’Italia è tuttora in una posizione di debolezza in seno all’Unione europea e non può governare l’euro (peraltro già svalutatosi forse persino più di quanto prevedibile).

Così la vera domanda oltre e più che sulla correttezza delle stime del Def  2015 rischia di essere: Berlino e Bruxelles saranno d’accordo con la “cura Renzi”? Altrimenti cosa chiederanno come merce di scambio per il loro via libera alla manovra italiana?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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