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Opinioni

Dalla moda all’alimentare: quando il “made in Italy” vince

Il “made in Italy” piace in tutto il mondo, ma se la moda vede già ora aziende più redditizie e robuste delle altre grandi imprese tricolori, nell’alimentare c’è un problema di nanismo. Eppure le cose potrebbero cambiare in meglio…
A cura di Luca Spoldi
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Dici “made in Italy” e dici margini e utili floridi, buona liquidità, maggiore solidità finanziarie e trend di assunzioni stabili o in crescita. Nonostante i limiti del “sistema Italia”, il peso di un’amministrazione pubblica spesso poco attenta alle esigenze delle imprese private quando non ottusamente burocratica, un fisco opprimente e una valuta, l’euro, che pare essere governata solo dagli interessi degli stati del Nord Europa a partire dalla Germania, il gusto e lo stile italiano continuano a piacere in tutto il mondo, con effetti benefici sulle aziende e sui lavoratori del comparto della moda, del design e dell’alimentare tipico tricolore.

Nonostante qualche segnale d’incertezza, ad esempio, il giro d’affari mondiale della moda italiana (beni di lusso per la persona) è stato stimato dagli analisti di Mediobanca in crescita, nel 2013, a circa 218 miliardi di euro, con un rallentamento dei tassi di sviluppo attorno al 3%, “anche a causa della dinamica avversa dei cambi” (il giro d’affari è infatti salito del 5% a cambi costanti), dopo che il precedente triennio si era mosso sempre in doppia cifra: +10% nel 2012, +11% nel 2011 e +13% nel 2010 (a cambi correnti). Gli analisti sottolineano tuttavia come le maggiori aziende della moda italiana hanno segnato anche nel 2013 risultati migliori di quelli della grande industria privata italiana, soprattutto con riferimento al trend dei ricavi e ai margini.

Nel 2013 infatti la grande industria italiana ha registrato un calo del fatturato dell’1,9% contro una crescita dell’1,4% registrata dalle prime 135 aziende moda Italia e del 4,4% dalle 10 maggiori aziende (“top moda”). L’Ebit margin (margin operativo netto) delle prime è superiore a quello della grande industria italiana (9,1% contro l’8,4%), quello delle seconde quasi il doppio (15,1%). Soprattutto ciò che distingue le aziende della moda rispetto a quelle della grande industria privata italiana è la struttura finanziaria, con le società della moda molto più capitalizzate e con debiti finanziari pari a meno del 40% dei mezzi propri (per le aziende “moda Italia”, ma addirittura meno del 9% per le “top moda”), rispetto al 143% medio nella grande industria tricolore.

Altro fattore di diversità è l’abbondanza delle disponibilità liquide, pari a quasi 4 volte il debito oneroso nel caso delle 10 maggiori aziende di moda, rispetto ad un’incidenza del 66% del debito per le aziende moda Italia e del 38% per la grande industria privata italiana in genere. Se la moda può continuare a festeggiare il suo primato, anche l’alimentare non se la passa male. Secondo una ricerca online, in questo caso curata dalla società di reclutamento ManpowerGroup su un campione di 442 aziende nazionali e internazionali, il 29% delle aziende intervistate prevede di assumere nuovo personale e il 63% non intende comunque ridurre l’organico, mentre solo l’8% prevede un taglio dei posti di lavoro.

Se nel mondo il settore alimentare vede il primi 10 colossi spartirsi un fatturato di 450 miliardi di dollari l’anno (a fronte di 7.000 miliardi di capitalizzazione), con giri d’affari che vanno dai 90,3 miliardi di dollari di Nestlé ai 13 miliardi di Kellogg’s, in Italia le dimensioni sono più contenute. Ferrero, unica realtà confrontabile coi colossi mondiali, fattura circa 8,1 miliardi di euro (10 miliardi di dollari) l’anno, Barilla si ferma a 3,5 miliardi di euro, tallonata da Cremonini (a sua volta a circa 3,5 miliardi); più lontane Parmalat (1,4 miliardi), Amadori (1,3 miliardi) Lavazza e Conserve Italia (entrambe attorno al miliardo di euro l’anno), mentre subito sotto il livello del miliardo di euro di fatturato annuo gravitano Acqua San Benedetto, Galbani e Granarolo.

L’assenza di nomi italiani tra i colossi dell’alimentare mondiale, ricordano gli stessi esperti di ManpowerGroup, “ha però la sua contropartita positiva. Anche per il settore alimentare, infatti, quando si parla di “made in Italy”, si pensa alla creatività, alla qualità e all’artigianalità tipica dei prodotti italiani, amati e stimati in tutto il mondo”. Insomma, come per la moda, anche in campo alimentare da semplice fattore geografico, il “made in Italy” “è diventato un brand in grado di evocare un mood culturale che unisce il saper vivere, il saper essere e il saper fare; una combinazione di cultura, arte, manifattura, estetica, territorio, artigianato, storia, che insieme generano eccellenza”. Semmai il principale problema del “made in Italy” in questo caso è “la distribuzione internazionale, presidiata invece dai competitor europei che contano su grandi catene distributive ampiamente internazionalizzate e ben posizionate nei nuovi mercati”.

La maggior parte dei player italiani “non possiede delle grandi catene distributive, ma vive grazie alla micro-distribuzione; gli italiani non riescono a cogliere l’opportunità di diffondere all’estero un’idea di “Italian way of life”, così ricercata e apprezzata, e questo compito viene lasciato agli stranieri”. Non solo: “L’altra lacuna delle aziende italiane – proseguono gli analisti – riguarda l’aspetto digital e l’Italia rischia di arrivare ultima anche nell’e-commerce: già oggi la metà degli acquisti in negozio è influenzato dal web, ciò nonostante le aziende italiane non hanno ancora messo a punto una strategia commerciale integrata e multicanale, che intercetti e coinvolga il consumatore non solo offline, ma anche tramite il computer e lo smartphone. Sebbene la domanda a livello mondiale dei prodotti “made in Italy” sia cresciuta del 5,2% nel solo settore enogastronomico, l’e-commerce non è ancora percepito come uno strumento di fondamentale importanza anche per l’export”.

Attenzione però: se fino a qualche anno fa, valeva la regolapiccolo è bello” e le piccole e medie imprese italiane mietevano successi grazie alla flessibilità e alla dedizione personale, oggi tali elementi, per quanto rimangano importanti fattori competitivi, non sono più sufficienti “ad affrontare la drammatica contrazione dei consumi domestici e la sempre più agguerrita competitività internazionale”.Le aziende italiane dovranno insomma fare il salto di qualità e di taglia, altrimenti la piccola dimensione, ormai “diventata un freno che aumenta la difficoltà di accesso ai mercati emergenti e comporta poca ricerca e innovazione, scarsità di risorse da destinare a reti distributive e marketing, minore presenza internazionale” finirà col condannarle.

Ma per crescere di dimensione occorrerà anche investire in competenze, manageriali oltre che produttive, come già accaduto nel campo della moda. “Nell’attuale società basata sulla conoscenza, nell’epoca della content economy,in cui le nuove idee e le abilità professionali rappresentano l’elemento fondamentale dell’innovazione e dello sviluppo economico, è indubbio che le risorse umane costituiscano l’elemento centrale per innovare e competere” concludono gli esperti di ManpowerGroup, ricordando come sia “il capitale intellettuale a disposizione dell’impresa a determinarne le potenzialità di successo”. Non potrei essere più d’accordo e non solo (ma soprattutto) per quanto riguarda il “made in Italy”.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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