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Stuprata a 13 anni, chiesti 80 anni di carcere per il branco di Mèlito Porto Salvo

Ottant’anni è la richiesta di condanna pronunciata ieri dal pm nel procedimento ‘Il ricatto’ che vede al banco degli imputati otto uomini accusati di aver abusato sessualmente per due anni di una ragazzina. Tra loro anche il rampollo di una nota famiglia della ndrangheta reggina. A margine del processo il pm ha denunciato il clima ostile alla vittima: “Sotto processo non è lei, ma i suoi carnefici”.
A cura di Angela Marino
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Ottanta anni di carcere complessivi per gli otto uomini accusati di aver stuprato per due anni una ragazzina 13enne a Melito Porto Salvo. È la richiesta di condanna avanzata dal pm Francesco Ponzetta nel processo al ‘branco' che ha approfittato di una tredicenne costringendola col ricatto a subire per anni rapporti sessuali da vari adulti del ‘branco'. Un processo delicato andato in scena al Tribunale di Reggio Calabria, a porte aperte, davanti ai giudice che nelle prossime settimane dovrà esprimersi sulla richiesta del pubblico ministero. "Pena troppo alta, non hanno mica commesso un omicidio" hanno minimizzato fuori dall'aula quanti ancora sostengono che la vittima se la sia ‘cercata'.

‘Ceduta' dal fidanzato

Al banco degli imputati nel procedimento chiamato, appunto il "Ricatto", per le accuse di violenza sessuale di gruppo aggravata, atti persecutori e detenzione di materiale pedopornografico per i fatti del 2013, si sono seduti: Giovanni Iamonte (richiesta di condanna a 15 anni); Antonio Verduci (10); Michele Nucera (12) Daniele Benedetto (7), Lorenzo Tripodi (8), Pasquale Principato, 8, Domenico Mario Pitasi, 3 anni e Davide Schimizzi (richiesta di condanna a 16 anni). Proprio quest'ultimo, all'epoca dei fatti fidanzato della vittima, l'avrebbe condotta verso quelli che sarebbero diventati i suoi aguzzini. Il vero deus ex machina, tuttavia, sembra essere il 32enne Giovanni Iamonte, figlio del boss Remingo, rampollo di una delle famiglie più temute del territorio. Una famiglia a cui non si dice di no.

La ribellione

Eppure il suo ‘no', la giovanissima vittima ha cominciato a dirlo inconsapevolmente, lasciando quelle che il pm ha definito ‘mollichine di Pollicino', ovvero piccole tracce che, ricucite insieme, hanno consentito agli adulti di scoprire gli abusi a cui era costretta. Dopo due anni di violenze, nonostante avesse subito minacce riguardanti sia la divulgazione del materiale pornografico raccolto a sua insaputa, sia l'incolumità della sua famiglia, la vittima ha cominciato a fare riferimenti alle violenze subite. Uno di questi è presente un tema scolastico poi finito agli atti, in cui la ragazzina sfogava il senso di repulsione verso sé stessa.

Terra di mafia e silenzi

Un elemento che ha portato alla scoperta dei fatti due anni dopo, sebbene due parenti della piccola avessero avuto modo di vederla in compagnia di uno degli aguzzini, in un auto e abbiano scelto di non informare i suoi genitori. Non poco coraggio ha richiesto poi la denuncia che è stata presentata poco dopo dai genitori della vittima, consci, entrambi di aver in quel modo messo in discussione un retaggio di silenzio e sopportazione del sopruso che sul territorio ha regnato per secoli. Non altrettanto coraggiosi sono stati i concittadini di Melito che, in pochissimi si sono schierati con la famiglia denunciante, mentre gli stessi esponenti delle forze dell'ordine locale sono stati redarguiti dal pm per non aver proceduto d'ufficio alla prima notizia dei fatti riportata dai genitori della ragazzina.

Il processo alla vittima

Sin dall'inizio del processo iniziato nel 2017, lo stesso clima d'isolamento si è respirato fuori dal tribunale dove l'associazione femminista ‘Manden' che si è presentata per sostenere la vittima, ha denunciato gli atteggiamenti ostili e minacciosi da parte di persone vicine agli accusati. Un clima pesante che si è trascinato nella stessa aula, dove le difese hanno provato a ‘smontare' le accuse della vittima materializzando presunte difficoltà del contesto familiare e una presunta instabilità della giovane, per certi versi finita sotto processo al posto dei suoi carnefici. A questo proposito il Pm ha parlato di un salto indietro di ‘decenni' nella considerazione della vittima, nonostante in questo caso si tratti di una minore non in grado di autodeterminarsi.

L'epilogo

A ridosso di Natale è prevista la sentenza del giudice Silvia Capone, che deciderà se accogliere o meno la richiesta di pena del pubblico ministero. Una decisione che sarà comunque ‘d'esempio' nella percezione delle pene sui crimini sessuali su un  territorio dove più danno della violenza ha fatto la muta sopportazione del crimine.

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