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Violenza sulle donne, i traumi influenzano la mente anche dopo anni: “Non ci si percepisce come soggetti autonomi”

La violenza lascia sulle donne segni profondi anche dopo anni. La psicologa spiega come abusi e microtraumi cambiano mente, autostima e fiducia, quali passi aiutano a ricostruirsi.
Intervista a Dott.ssa Chiara Simonelli
Psicoterapeuta e sessuologa alla Fondazione Sapienza di Roma
A cura di Elisa Capitani
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Il 25 novembre è la giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, ricorrenza che si tiene ormai dal 1999, in ricordo delle tre sorelle Mirabal, deportate, violentate e uccise il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana e il cui simbolo sono diventate le famose scarpe rosse create dall'artista messicana Elina Chauvet. Eppure, i dati più recenti e allarmanti dell'Istat mostrano come il mondo sembra essere ancora lontano dal porre fine a questa violenza sistemica. Sono infatti 6 milioni e 400mila, circa il 31% della popolazione femminile italiana, le donne che tra i 16 e i 75 anni hanno subito una forma di violenza fisica o sessuale. Le sfumature della violenza contro le donne sono molteplici: violenza fisica, sessuale, psicologica o economica. Un recente progetto di ricerca, l'EpiWE, Epigenetica per le donne, coordinato dall'Istituto Superiore di Sanità (Iss) e finanziato dal Ministero della Salute, ha tuttavia dimostrato che la violenza, in tutte le sue forme, modifica i geni delle donne. Dallo studio è infatti emerso che oltre il 50% delle donne presenta diversi disturbi anche a distanza di anni, dal disturbo post-traumatico alla depressione. Abbiamo parlato con la dott.ssa Chiara Simonelli, psicoterapeuta e sessuologa alla Fondazione Sapienza di Roma, per capire quali sono i danni che le donne vittime di violenza subiscono a livello psicologico dopo anni di abusi.

Dott.ssa sappiamo che la violenza sistemica non crea danni solo a livello fisico. Cosa accade al cervello dopo anni di violenze o abusi psicologici?

Gli abusi ripetuti, anche quando non si tratta di episodi eclatanti ma di microtraumi quotidiani, modificano profondamente il funzionamento della mente. Aumentano la paura, l’insicurezza e la difficoltà nel percepirsi come soggetti autonomi e indipendenti. È come se il cervello si adattasse a un ambiente ostile, normalizzando ciò che accade pur di sopravvivere emotivamente.

Perché i traumi o i microtraumi quotidiani sono così pericolosi per la salute mentale?

Perché si accumulano e diventano una modalità di relazionale stabile nel cervello della donna che subisce ripetutamente violenza, una relazione ingiusta e svalutante. Non sono "solo" episodi isolati ma un clima costante che a lungo andare logora l’autostima nel profondo. La donna finisce per vivere e percepire quelle dinamiche come normali, soprattutto quando il partner crede sinceramente di trattarla bene, pur negando, calpestando e denigrando le sue emozioni e la sua identità.

Quanto pesa ancora il retaggio culturale nella percezione della violenza?

Moltissimo. Esistono ancora ambienti in cui si crede che un "no" femminile sia una forma di pudore e quindi diventa un "sì" implicito nella mente degli uomini violenti. Certi uomini in carcere condannati per violenza sessuale con cui ho parlato per lavoro riferivano questa interpretazione come normale, interiorizzata profondamente non come un alibi. È un retaggio che disumanizza la donna e la trasforma in un oggetto privo di volontà.

Cosa succede a una donna che vive per decenni dentro una relazione abusante e in un contesto in cui questo retaggio è così radicato?

Per evitare di percepirsi come vittima, ruolo doloroso e umiliante, molte donne normalizzano ciò che vivono. Si dicono di essere troppo sensibili o permalose, si convincono che “gli uomini sono tutti uguali” e che non esistono alternative migliori. È un meccanismo di autoconservazione che però erode profondamente l’autostima e influisce negativamente sulla percezione della realtà, creando quindi un circolo vizioso da cui è difficile uscire.

Perché, una volta uscita dalla relazione, è così difficile fidarsi di nuovo?

Perché l’intero mondo emotivo è stato costruito su una relazione manipolatoria e svalutante e si pensa che quindi l'universo intero sia così. Dopo anni di abusi, la donna può sentirsi rigettata, convinta che nessuno possa realmente amarla o che la sua vita sia ormai compromessa. Manca un modello sano di affetto e questo rende complesso fidarsi degli altri, non solo sul piano sentimentale, ma relazionale in generale.

Quali sono le conseguenze psicologiche più comuni che si riscontrano a distanza di anni?

Depressione, impotenza appresa, sentimenti di fallimento e ansia da stress post traumatico. Quando si ha avuto a che fare con uomini violenti, che soffrono in alcuni casi di alessitimia, ossia la difficoltà a riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, i danni possono essere estesi. Queste dinamiche nascono da un meccanismo di difesa potente, che serve a non soffrire, e che impedisce di entrare in relazione piena con se stesse e con gli altri.

Da dove può ricominciare una donna che vuole ricostruire la propria vita, passo dopo passo?

Sicuramente dal recupero dell’autostima, che è la prima cosa che viene a mancare nelle situazioni abusanti. Prima di cercare nuove relazioni o prendere decisioni troppo importanti, è fondamentale rimettere al centro se stesse: impegnarsi in attività formative, corsi, esperienze nuove, lavoro, viaggi. Sono passi che restituiscono l’idea di avere potere sulla propria vita e creano una base solida di autonomia emotiva e pratica.

È possibile tornare a relazioni sane dopo aver subito abusi?

Sì, ma richiede molta consapevolezza e anche molta pazienza. La donna deve comprendere che nessun altro è responsabile di riempire i suoi vuoti e che nemmeno lei è tenuta a curare partner emotivamente problematici. Imparare a mettere confini chiari, nessuno deve poterla svalutare o insultare, è la svolta. Solo così diventa possibile costruire legami paritari, rispettosi e realmente affettivi.

Le informazioni fornite su www.fanpage.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.
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