Gianluca Mager: “La vera vita del tennista è durissima, costa tanto. Oggi a 30 anni devo lavorare”

Gianluca Mager ha detto basta a 30 anni, dopo una lunga carriera fatta di tanti sacrifici, gavetta, alti e bassi e qualche rimpianto. Tutto anche con la soddisfazione di aver raggiunto il best ranking di numero 62 e di aver indossato la maglia azzurra per difendere l'Italia in Coppa Davis. Il classe 1994 ligure, di Sanremo, ha una storia particolare: talento ribelle che da ragazzo rischiava di perdersi, ha trovato la sua strada prima nel tennis professionistico e oggi in una nuova vita da maestro e da coach. Nel 2020 la cavalcata fino alla finale di Rio de Janeiro, persa contro Garin, lo aveva consacrato tra i migliori, poi le difficoltà, la lontananza da casa, i viaggi infiniti, la fatica economica di chi deve costruirsi un percorso in uno sport molto duro.
Oggi, lontano dai riflettori del circuito, Mager ai microfoni di Fanpage.it racconta senza filtri la sua carriera: i momenti bui dell’adolescenza, la gavetta nei Futures, i sacrifici e i ricordi più belli, dal debutto in Davis al rapporto con Sinner e Musetti. E lo fa con la sincerità di chi non rinnega nulla, ma sa che i veri valori restano quelli umani, dentro e fuori dal campo.
Gianluca, che tennis hai lasciato? Quali sono le differenze rispetto a quando hai mosso i primi passi nel circuito?
"Sinceramente, quello che ho notato è quanto la nuova generazione sia più professionale. Quando io stavo iniziando a diventare un po’ più grande, i giovani erano diversi: c’era meno cazzeggio, più serietà. Per esempio, all'epoca prima di giocare si allenavano un po’ meno, curavano meno aspetti come l’alimentazione, la preparazione atletica, l’attivazione. Adesso invece è tutto molto più professionale".
Ma questo l'hai notato per tutti o solo per i tennisti italiani?
"Nell’epoca in cui giravo i Futures c’era molto più cazzeggio rispetto a quello che ho riscontrato negli ultimi anni. Questa è la differenza più grande. Ti parlo della fase di avviamento, dei Futures, di gente un po' più indietro in classifica. E questo discorso vale per tutti, non solo per i tennisti italiani. Un italiano lo conosci meglio, ma oggi c’è molta più professionalità. Già quando avevo 28-29 anni c’erano ragazzi di 20 che investivano grazie alla federazione: investivano subito per avere un team, per essere seguiti in determinate maniere. Prima questa cosa mancava di più".

Hai attraversato un periodo buio in età giovanile, e stavi quasi per mollare. Con il senno di poi, quella fase cosa ti ha insegnato?
"La fase buia che ho passato io, fondamentalmente, era una fase in cui ero parecchio ribelle. Non mi piacevano le regole, non mi piaceva sottostare a determinate cose. Però senza di quella non sarei chi sono adesso, questo è sicuro, però quella fase mi ha limitato tanto nella mia carriera personale sotto diversi punti di vista".
Cosa può trarne un ragazzo che oggi vive la stessa situazione, cosa gli diresti?
"Se dovessi parlare con un ragazzo giovane, direi assolutamente di usare quella fase non solo per arrivare a un risultato. Oggi un ragazzino già a 14-15 anni pensa al risultato, a vincere il set di allenamento, più che a quello che è realmente importante: la crescita personale, guardare avanti, costruire il futuro. Io ho avuto la fortuna di avere i miei genitori accanto: mia madre ancora oggi non sa cosa significhi 15-0, mio padre invece è sempre stato un grande appassionato. Durante il periodo buio mi ha accompagnato, ma dai 18 anni in avanti si è fatto da parte: guarda le partite, segue il punteggio, ma non si mette in mezzo. È una cosa eccezionale, e oggi è davvero rara. Non è un caso che il numero uno e il numero due al mondo vengano da famiglie così, da quello che ho intuito".
Tu conosci molto bene Lorenzo Musetti: anche per lui si può fare lo stesso discorso che hai fatto per Alcaraz e Sinner?
"Mia moglie è sorella della sua compagna, e lo conosco dai primi anni in cui giocava. Ho condiviso con lui il circuito ATP e i Challenger, e conosco anche la sua famiglia: una famiglia che lascia fare al maestro, si fida di lui e non si mette in mezzo a situazioni o risultati. Questo è fondamentale".
Ora sei dall'altra parte della barricata, è difficile tirar su i ragazzi in modo sano a livello sportivo?
"I ragazzi oggi, a 14-15 anni, spesso si perdono perché devono vincere, perché i genitori stessi mettono pressione. Quello che posso consigliare a un giovane e soprattutto a una famiglia è di accompagnare il figlio o la figlia nel percorso senza però mettere pressioni. Tutti vorrebbero avere un campione: anche io vorrei che mia figlia o mio figlio diventassero campioni di qualcosa. Ma alla fine quello che conta è il valore che ti trasmette lo sport, e il tennis in particolare. Sarebbe bellissimo se mio figlio giocasse a tennis anche senza diventare nessuno, perché so che tipo di persona può diventare. Il tennis ha lati e valori che pochi altri sport possiedono. È uno sport duro, individuale, che ti mette davanti a te stesso e ti fa crescere. E questo è un po’ il concetto che volevo far passare".
Tu hai avuto una lunga gavetta, quanto è difficile a livello economico sostenersi quando non sei un big?
"La mia carriera è stata lunghissima, però mi ricordo bene il 2016, quando giocai dei Futures in Israele: la vita lì costava carissima e io, il mio allenatore Matteo Civarolo e un altro ragazzo dormivamo in una casa dove c’era un letto e la cucina praticamente sopra il letto. Quando giocavi quei tornei avevi spese importanti e dovevi cercare di limitarle, sperando di allenarti ogni giorno per poter arrivare. Io la gavetta l’ho fatta tutta: dai Futures ai Challenger. So bene cosa deve affrontare un tennista, cosa passa".
Ma oggi come oggi è ancora così?
"Negli ultimi anni le cose sono leggermente migliorate: l’ATP sta cercando di aiutare i primi 250 giocatori del mondo con una cifra garantita. Adesso danno ospitalità nei Challenger anche se giochi le qualificazioni, addirittura un rimborso economico. Ma quando mi sono approcciato io a questo mondo, in certi Challenger non c’era ospitalità, dovevi pagarti la camera, non c’erano soldi per le qualificazioni. Quindi quel piccolo compenso che oggi potresti prendere, allora non lo prendevi. Tante volte avevo la pressione di vincere l’ultimo turno solo per avere il “prize money” o l’ospitalità. È un mondo duro, difficile, che stanno cercando di migliorare e che sicuramente negli anni a venire diventerà sempre meglio per tutti i giocatori".
A livello economico era dura quindi perché se non facevi risultati, dovevi barcamenarti.
"Basta guardare le qualificazioni degli Slam: quando ho iniziato io prendevi 7-8 mila euro per un turno di quali; adesso sono 15-16 mila, praticamente il doppio. È un passo avanti, ma resta dura perché i viaggi sono a tue spese. Se non hai la classifica per entrare in tabellone, devi spostarti lontano dall’Europa. Un allenatore costa, c’è sempre la spesa per due. Non tutti ce la fanno, ma chi riesce, una volta entrato nei primi cento o centocinquanta del mondo, inizia a vedere i frutti del lavoro, del sacrificio e di tutti gli anni precedenti".
Insomma è dura, anche perché all'inizio non puoi permetterti un team al completo.
"All’inizio però, a meno che non vieni da una famiglia benestante, non puoi permetterti di andare a fare i tornei da numero 400-500 al mondo con fisioterapista, preparatore e allenatore al seguito. Io, come tanti altri, andavo da solo ai tornei, perché l’allenatore costava troppo e il guadagno andava in perdita, a meno che non giocassi davvero bene".
C'è un episodio che fotografa al meglio questa situazione?
"Anche i montepremi sono cambiati. Un tempo, vincendo un Challenger da 75.000 dollari, prendevi 3-4 mila euro; adesso sono 8-9 mila. Ricordo un anno in cui andai in America da solo ed eravamo io e Vavassori. Giocavamo entrambi il singolo, lui anche il doppio. Stavamo sempre nella stessa camera: magari io perdevo subito e restavo senza ospitalità, ma lui andava avanti, quindi condividevamo per limitare le spese. Era un adattamento costante a tutto quello che può essere la vita di un tennista a livelli non alti".
Alla luce di quello che ci hai detto, dopo la fine della tua carriera si può vivere di tennis?
"Oggi devo lavorare, non è che posso mettermi lì e dire ‘ok, adesso perfetto, due anni guardo il cielo, le stelle, e poi tra due anni…'. Ho smesso anche perché è iniziata una cosa lavorativa nuova. Io sono sempre stato uno che, anche quando ero nei primi cento, mi sono detto che non avrei giocato a tennis fino a 35 anni. La mia idea è sempre stata quella di smettere abbastanza presto".
Insomma non è stato per niente semplice, e non solo per gli avversari.
"Sì, perché io soffrivo proprio. Per me era una battaglia continua: la lontananza da casa, il dover viaggiare sempre… Poi sono nati i bambini. Quando è nata la mia prima figlia mi ha dato proprio quella spinta a dire basta. Tu non lo sai, ma nel 2023 smisi per sei mesi e non volevo riprendere. Poi giocai la Serie A, non avevo ancora le idee chiare, feci la preparazione e a gennaio vinsi un Challenger in Uruguay. Tornai intorno al numero 200-220 del mondo. Poi quest’anno in Australia ho capito definitivamente che non c’era più quella cosa che mi spingeva a risalire la classifica".
Non sentivi più il fuoco, ma è stata una scelta improvvisa?
"Quel fuoco dentro, che mi ha sempre animato, che mi ha sempre fatto dire “ok, adesso vai e questa partita la vuoi vincere”, è diventato un po’ più debole. Ormai pensavo: “Va bene anche se perdo, torno a casa”. Ho provato, ci sono stato, ma non era più la stessa cosa. Non è una scelta presa da un giorno all’altro: è stata ponderata. Avevo già smesso, poi ripreso, poi ho provato ancora sei mesi. Ma a un certo punto veniva prima la mia salute, soprattutto la salute mentale. Perché quando dovevo partire per un viaggio lungo, anche solo prendere un aereo, diventava pesante".
Immagino che il cambiamento e la tua vita da maestro-coach ora la vivi in modo più sereno.
"Tra cinque anni, magari da allenatore, lo farò più volentieri. Ma adesso sentivo proprio l’esigenza di stabilirmi a casa, soprattutto con questo progetto con il mio ex allenatore, Matteo Civarolo. Non sono mai stato uno che a 23 anni diceva: “Giocherò fino a 40”. Sapevo che la mia carriera sarebbe finita prima rispetto alla media. Forse avrei potuto stare più a lungo nei primi cento, ma non ci sono riuscito anche per varie ragioni". Adesso lavoro: sono in campo tutto il giorno, la mattina e il pomeriggio. Non è solo una questione sportiva, ma di sensibilità".
Il quadro che emerge è che per i tennisti non sia tutto rose e fiori, anzi imponga spesso ritmi molto duri.
"Il tennis è una vita durissima. Fino a quando non sei al top, ma anche quando ci sei, serve sempre qualcosa di forte che ti spinga. Altrimenti basta poco e ti ritrovi a non capire più se vuoi farlo davvero. Ogni settimana sei in viaggio, a Natale sei in Australia, non esistono festività. Sei fondamentalmente solo. Non è ‘giochi a tennis, giri il mondo, che bello'. Non è così. Se sei fuori dai primi cento non vai certo negli alberghi a cinque stelle. È dura, e ci sono tanti aspetti che ti condizionano".
E se sei una persona molto sensibile poi, è ancora più difficile?
"Poi dipende dalla persona che sei. Se sei avventuriero, libero, magari ti piace. Io invece sono sempre stato legato alla casa, alla mia famiglia, a stare vicino ai miei genitori. Questo mi faceva star bene. A maggior ragione quando sono nati i miei figli. Quando dovevo partire per un torneo era un disastro. Due giorni prima in casa non parlavo, mia moglie mi chiedeva: “Che c’è?”. E io: “Devo partire”. Dovevo prepararmi psicologicamente. È stato quasi un incubo".
Adesso però è cambiato tutto, qual è la cosa che ti piace di più della tua nuova vita?
"Adesso io mi sto vivendo proprio la quotidianità delle cose e mi sento una persona tranquilla, felice, contenta. Sto apprezzando anche tutte quelle cose che in quattordici, quindici anni non ero mai riuscito a fare, come una vacanza, per esempio quest’estate, oppure godermi un weekend Con il tennis non si può mai, perché ci sono sempre tornei e gare a squadre, quindi weekend liberi ne ho avuti davvero pochi. E poi, ripeto, c’è questa cosa lavorativa: poter lavorare nel circolo dove sono nato e cresciuto, con ragazzi giovani. È la cosa che mi piace di più in assoluto fare. Direi che al momento non mi manca niente".
Traspare tutto dalle tue parole, e penso che questo arrivi anche ai tuoi allievi ed è bellissimo.
"Ma assolutamente, sì. La trasmetti prima di tutto in famiglia, in casa. Infatti mia moglie me lo ha detto diverse volte. Quando giocavo, se dovevo andare in campo alle sette e mezza del mattino, magari sapendo che poi sarei partito per un torneo, mi svegliavo e non riuscivo neanche a dire ciao. Niente. Adesso invece si vede che c’è questa serenità che negli ultimi due, tre anni mi era mancata. Prima non era così: ero sempre contentissimo di partire, ma era un equilibrio diverso. Avevo la voglia, il fuoco di voler dimostrare determinate cose, e quella fiamma compensava la mancanza di tempo in casa. Poi, però, sulle mie radici, sul desiderio di stare a casa, a un certo punto ha prevalso quello. Negli ultimi due, tre anni le cose hanno preso il loro cammino. Le cose devono succedere perché devono succedere, e così è stato".

Nella tua carriera hai avuto modo di affrontare Jannik Sinner che dunque conosci. Che impressione ti ha fatto e ti fa?
"Sullo Jannik giocatore, non devo aggiungere molto. Poi ci sono state delle volte che ci siamo allenati insieme: avendo un buon rapporto con Vagnozzi, magari mi chiamava e, se io avevo la possibilità, ci allenavamo sempre. A volte mi diceva: ‘Jannik ha due giorni liberi. Vuoi venire a Montecarlo?' E io subito di corsa andavo. È noto che è un ragazzo estremamente umile. Quando ci parli lo capisci subito: ha dei veri valori. Che sia numero uno al mondo, che sia numero cento o mille, una persona che ha dei valori lo è comunque, ogni giorno. Lo dimostra il modo in cui parla: quando dice qualcosa, sono sempre parole ponderate. Già dopo la finale a Parigi si vedeva che è un ragazzo con dei principi solidi. Che fosse numero uno, numero 10 o numero 100, resterebbe identico, e questo ti fa capire la sua vera indole".
Insomma Jannik Sinner è apprezzabile sia dentro che fuori dal campo.
"Faccio sempre l’esempio di Lorenzo (Musetti, ndr): anche lui è sempre la stessa persona. Questo dimostra che ci sono dei valori veri, trasmessi dalla famiglia, e sono quelli che contano davvero. Alla fine puoi essere numero uno o numero due, ma se sei anche una persona vera con dei valori, questa è la cosa più importante. Io, sul piano tecnico, posso dire poco: il diritto, il rovescio… ma quello che ti posso davvero affermare è questo aspetto umano. È così che lo vedo".
Torniamo su di te, oggi cosa ti piacerebbe che la gente pensasse del Mager giocatore
"Beh, le persone… non lo so. Io sono sempre stato una persona estremamente riservata. Ho riaperto i social solo perché mia moglie mi ha detto che, per il mio lavoro e per quello che farò, era giusto averli. Però io sono così: molto riservato. Non so esattamente che ricordo posso lasciare alle persone. Mi piacerebbe che si sapesse che sono stato una persona educata, con dei valori. Perché io mi reputo così, con determinati valori, e questo mi piacerebbe di più che essere ricordato come tennista. Non è tanto il “tennista” a definirmi, ma la persona. So che è la stessa cosa che ho detto di Sinner e di altri, ma lo penso davvero. Non è scontato, oggi come oggi: dovrebbe esserlo, ma invece viviamo in un contesto quasi da far west. Quindi sì, quello che posso dire è che vorrei essere ricordato come una persona educata, con dei valori. Anche in campo sono sempre stato così: mai fatto scenate, mai insultato arbitri, mai fatto cose fuori posto. Sono sempre stato riservato, introverso, è la mia indole".
Se ti guardi indietro quali sono i momenti che porti più nel cuore della tua avventura tennistica?
"Per quanto riguarda i miei ricordi da giocatore, ce ne sono un paio molto importanti. Uno è quando ho vestito la maglia della Nazionale: lo dico sempre, è stata l’emozione più grande ma allo stesso tempo anche la più brutta. Perché a Cagliari, proprio durante il mio esordio, scoppiò il Covid: lo stadio che doveva essere pieno, con cinquemila persone, era vuoto. Un’esperienza bellissima e al tempo stesso dolorosa. Quella maglia la conservo ancora, sporca, dentro un quadro: non l’ho neanche lavata, perché voglio che resti così, che i miei figli possano vederla. L’altro ricordo è più prevedibile: la finale a Rio de Janeiro, quando entrai nei primi cento del mondo. Lì ho sentito di aver preso il mio vero posto. Tutti i sacrifici, le lotte interiori, le difficoltà, sembravano arrivati a un punto di svolta. Quella sensazione non la dimenticherò mai".