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Marco Giandebiaggi: “La Juve mi provò in tournée, poi prese Pecchia. Oggi faccio l’agente commerciale”

Marco Giandebiaggi a Fanpage.it apre il cassetto dei ricordi e racconta tutto con passione e autenticità: dagli inizi al Parma alla Coppa Anglo-Italiana con la Cremonese fino alla tournée con la Juventus nel 1996 che poteva cambiare la sua carriera.
A cura di Vito Lamorte
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Ci sono giocatori che non fanno rumore, ma lasciano un segno profondo. Marco Giandebiaggi è uno di loro. Centrocampista di sostanza e intelligenza, nato a Parma nel 1969, ha attraversato con passo deciso uno dei periodi più luminosi della Cremonese, quella di Gigi Simoni, capace di far sognare una città intera negli anni ’90. Con lui in mezzo al campo, la Cremo ha scritto pagine indimenticabili: la promozione in A, il miglior piazzamento della sua storia nella massima serie e la notte magica di Wembley, quando la Coppa Anglo-Italiana finì tra le mani dei grigiorossi. Un calcio fatto di rapporti umani, di sudore e orgoglio, che Giandebiaggi porta ancora dentro come un’eredità preziosa. A Fanpage.it offre il suo sguardo sul calcio, che resta lo stesso: concreto, appassionato, autentico — proprio come lo era il suo modo di giocare.

Cosa fa oggi Marco Giandebiaggi? 
"Sono agente commerciale per il marchio sportivo Errea. Sono rimasto sempre nel settore calcistico e sportivo, ma sotto un'altra prospettiva. Dopo anni di campo e panchina…".

Ecco, il campo. Partiamo dagli inizi: com’è stato l’approccio con il calcio?
"Sono stato tanto tempo ad allenarmi con la prima squadra del Parma da ragazzo. Sacchi mi fece esordire in un’amichevole con la Roma contro la Lazio, ma per crescere davvero serviva fare esperienza altrove. L’anno dopo infatti andai in Lega Pro: fu fondamentale per maturare e capire cosa volesse dire vivere da professionista. Quando tornai, Sacchi non c’era più, ma quella prima parte fu una lezione di vita e di calcio".

E poi arrivò la chiamata della Cremonese. Come nacque quel trasferimento?
"Fu un passaggio difficile sul piano emotivo, perché ero parmigiano e sognavo di vivere la Serie A con la mia città. Mi sarebbe piaciuto restare almeno sei mesi, ma la società decise che dovevo andare a giocare. All’inizio ci rimasi male, poi capii che era la mia fortuna. La Cremonese credette in me: avevo 21 anni, e loro mi presero per sostituire Attilio Lombardo. Venivano da una retrocessione, ma mi diedero fiducia e io credo di averla ripagata nei sette anni che ho vissuto lì".

Giandebiaggi insieme a Melli al Parma nella stagione 1989–1990.
Giandebiaggi insieme a Melli al Parma nella stagione 1989–1990.

In quegli anni la Cremonese diventa “la Cremonese di Gigi Simoni”. Che persona era il mister?
"Simoni è stato un allenatore speciale, umano, vicino ai giocatori ma esigente. Totalmente diverso da Sacchi: meno tatticismo, più sensibilità. Ti voleva bene come a un figlio, ma pretendeva tanto. Già allora giocavamo un 3-5-2 a uomo, in stile Gasperini, e lui curava tutto nei minimi dettagli. A Cremona riuscì a portare professionalità e organizzazione in una realtà di provincia, senza snaturarla. Ha cambiato la mentalità di un intero ambiente".

La stagione 1993-94 resta indimenticabile per i tifosi e anche per lei. Quattro gol, tra cui uno alla Juventus…
"Sì, quella fu la mia stagione migliore. Il gol alla Juve lo ricordo come se fosse ieri: un tiro da lontano, e io non ero uno da bombe fuori area. Forse il mio gol più bello e importante. Quell’anno tutto funzionava: eravamo una squadra solida, un gruppo vero. E poi chiudemmo il campionato davanti all’Inter: per una provinciale come la Cremonese fu qualcosa di straordinario".

Ci racconta il ricordo più forte di quegli anni?
"Senza dubbio Wembley. La finale della Coppa Anglo-Italiana del 1993 resta la ciliegina sulla torta. Vedere una città come Cremona trasferirsi in massa a Londra fu incredibile. Vincere quella coppa non tanto per il trofeo in sé, ma per aver dato visibilità internazionale a noi, alla città, alla società… fu una sensazione irripetibile. E poi, personalmente, penso di aver giocato la mia miglior partita in carriera".

Ha citato anche le salvezze, che spesso valgono quanto una promozione.
"Sì, lo dico sempre: le salvezze sono le vere imprese. Ne ho ottenute due con la Cremonese e una con il Verona. Sono traguardi meno celebrati ma molto più difficili, perché lotti ogni domenica, spesso con squadre giovani o con risorse limitate. A livello umano ti segnano più di una promozione".

Ecco, parliamo proprio di Verona: anche lì hai vissuto anni intensi.
"Sono stati tre anni bellissimi e particolari. Quando arrivai, la squadra era appena retrocessa, ma con Prandelli l’anno dopo vincemmo la Serie B con un gruppo giovane e straordinario: Brocchi, Falsini, Melis… C’era un mix perfetto tra ragazzi che volevano emergere e giocatori esperti. Prandelli ci diede un’identità, ci faceva giocare bene, coinvolgeva tutti. E l’anno successivo in Serie A ci salvammo con 13-15 risultati utili consecutivi. Una cavalcata incredibile".

Come vede il calcio di oggi rispetto a quello che ha vissuto lei?
"Sono due epoche diverse. Oggi il calcio è più veloce, più fisico, ma meno tecnico. Ci sono meno talenti e si dà poco spazio ai giovani italiani. Una volta c’erano due o tre stranieri per squadra, tutti di grande qualità. Oggi ce ne sono troppi e tanti potrebbero essere sostituiti da ragazzi del vivaio. Manca la pazienza di farli crescere. E poi si gioca a ritmi folli, con meno emozione. Negli anni ’90 c’era più cuore".

La Cremonese festeggia la vittoria finale della Coppa Anglo–Italiana 1992–1993.
La Cremonese festeggia la vittoria finale della Coppa Anglo–Italiana 1992–1993.

C’è una partita che vorrebbe rivivere?
"Sì, senza dubbio quella di Wembley. Non solo per la vittoria, ma per tutto quello che rappresentò: la preparazione, l’atmosfera, la gente. Fu la mia partita perfetta, sotto ogni punto di vista".

C'è mai stata una ‘sliding door' nella sua carriera, un’occasione che poteva cambiare tutto?
"Qualcuna sì. Nel ’96 andai in tournée con la Juventus, quella che aveva appena vinto la Champions. Giocai tutte le partite da titolare, c’era anche l’idea di prendere un centrocampista e si parlò di me. Poi alla fine andarono su Pecchia. E Zeman mi aveva cercato sia a Napoli che a Foggia. Sono occasioni che fanno parte del gioco. Non ho rimpianti, ma chissà come sarebbe andata…"

Oggi, guardandosi indietro, che sentimento prevale?
"Gratitudine. Ho avuto una carriera piena, pulita, fatta di sudore e di rispetto. Ho giocato con compagni straordinari e allenatori che mi hanno lasciato tanto. Non ho rimpianti: solo la consapevolezza di aver dato tutto, sempre".

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