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Ivo Iaconi: “Otto mesi dopo la malattia ero già in panchina. Oggi passo molto tempo in Thailandia”

Ivo Iaconi racconta a Fanpage.it la sua carriera fatta di sfide, vittorie e momenti difficili, sempre con la passione per il calcio come guida: dalla sua carriera da calciatore ai capolavori con Fermana e Frosinone in panchina.
A cura di Vito Lamorte
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Ivo Iaconi è una bandiera del calcio di provincia italiano, un uomo che ha vissuto il calcio in tutte le sue sfumature: dai campi polverosi di Giulianova agli spalti pieni di speranze di Frosinone, Reggio Calabria, Pescara, Ascoli e Cremona, dalle soddisfazioni delle promozioni alle amarezze degli esoneri. Libero carismatico da giocatore, allenatore pragmatico e appassionato, Iaconi ha attraversato decenni di calcio vero, quello in cui il lavoro quotidiano, la conoscenza dei giocatori e il cuore contano più dei riflettori.

I capolavori della sua carriera in panchina sono stati le promozioni in Serie B con Fermana e Frosinone: i marchigiani, per quali fu una parentesi quasi fiabesca della loro storia, ebbero la meglio su compagini come Palermo e Juve Stabia mentre in Ciociaria Iaconi aprì le porte per la prima volta alla società del presidente Stirpe.

A Fanpage.it mister Iaconi ha raccontato le tappe più significative della sua carriera, i momenti che l’hanno segnato e la ‘filosofia' che lo accompagna in ogni squadra che guida.

Come se la passa mister Iaconi di questi tempi?
"Non mi lamento, non mi lamento. Si lavoricchia, almeno ci proviamo. Passo molto tempo in Thailandia, dove vive mia figlia. Siamo diventati nonni, quindi spesso e volentieri sto lì. È la cosa più bella che mi potesse capitare".

Lei è di Giulianova, e da lì è partito tutto. Cosa significava vestire quella maglia e diventarne anche capitano?
"Era un impegno grande, quasi gravoso. Giocare per la squadra della tua città ti coinvolge troppo: vivi lì, hai gli amici, la famiglia… ogni risultato pesa di più. Però era una società familiare, molto unita. Si cercava coesione, più che altro. È stata un’esperienza formativa, con successi e insuccessi, ma piena di soddisfazioni".

Iaconi era un libero, un ruolo che oggi è praticamente scomparso. Manca o è normale evoluzione?
"Diciamo che io ho vissuto la transizione dal gioco tradizionale uomo a uomo al gioco a zona. Per un libero è stato difficile: eri abituato a leggere tutto da dietro, a chiudere ogni spazio. È stato complicato, ma con l’impegno ce l’abbiamo fatta".

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E poi è arrivato il passaggio in panchina. Come nasce la sua carriera da allenatore?
"In modo casuale. Non avevo una grande intenzione di allenare una prima squadra: mi sarebbe piaciuto lavorare coi giovani. Poi mister Tobia, che allenava la Sambenedettese, mi volle come vice. Da lì è cominciato tutto. Ho avuto un grande maestro".

Fermana, 1999. Un’impresa storica: la Serie B. Che ricordi ha di quell’annata?
"Un lavoro lungo, durato tre anni. Il primo anno fu difficile, ma gettammo le basi con il presidente Battaglioni. Giocavamo contro squadre come Palermo e Avellino, era un campionato durissimo. Avevamo però un gruppo di ragazzi intelligenti, molti dei quali oggi fanno gli allenatori: Bruno, D’Angelo, Maiuri, Di Fabio… Era una squadra di ‘allenatori in campo'. E le scelte, alla fine, si rivelarono tutte giuste. A distanza di tempo si può dire: fu un capolavoro".

A Frosinone, un’altra impresa: la prima storica promozione in Serie B. Cosa ricorda di quell’esperienza?
"Il Frosinone era già una grande società, anche se non ancora strutturata come oggi. C’era l’ambizione, quella sì. Insieme al direttore Graziani e al presidente Stirpe formammo una squadra forte. Mastronunzio, Ginestra, De Giorgio… calciatori importanti. Fu un’avventura bellissima".

Lei ha vissuto anche diversi esoneri amari. Come si affrontano emotivamente questi momenti?
"Non è facile. Devi accettare la sconfitta, anche quando non ti sembra giusta. Nel calcio capita. Ma spesso gli allenatori pagano colpe non loro. Si sbaglia insieme, ma alla fine paga sempre uno solo: l’allenatore".

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A Pescara ha lavorato insieme a suo fratello, direttore sportivo. Com’è stato coniugare famiglia e calcio?
"Io ero già affermato, avevo vinto a Fermo e a Taranto. A Pescara sono andato per dare una mano. Erano anni difficili, ma anche molto intensi. Nei primi due stagioni facemmo benissimo: nel primo anno fummo eliminati ai playoff per un errore arbitrale, poi arrivò la promozione. Pescara, per un abruzzese, è sempre un luogo speciale".

L'ultima esperienza in panchina a Brescia…
"Sì, arrivai in una società in difficoltà. L’obiettivo era la salvezza, ma a un certo punto si cominciò a parlare di promozione. Quando le aspettative cambiano in corsa, diventa difficile. Però ho un grande ricordo del settore giovanile, che lavorava benissimo. Avevamo fatto un progetto di altissimo livello, ma non se ne accorse nessuno".

Lei ha anche affrontato una battaglia personale importante, un tumore al polmone. Come si supera una prova del genere?
"È complicato. Ti arriva senza sintomi, senza segnali. Per fortuna l’ho scoperto per caso. E ho avuto la fortuna di lavorare in una società, la Cremonese, che mi ha aiutato molto. Ho lavorato fino all’ultimo giorno prima dell’operazione. Il presidente Arvedi mi fu vicino, non lo dimenticherò mai. Sono stato fortunato".

E poi, dopo pochi mesi, è tornato in panchina…
"Sì, alla Reggina, in Serie B. Mi operai a febbraio e tornai ad allenare a ottobre. Dopo otto mesi, in pratica. Non andò bene, ma era una squadra forte. L’ambiente societario però non era all’altezza. Anche quella fu una lezione".

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Oggi segue ancora il calcio?
"Poco. Non mi piace più, non mi riconosco nel calcio italiano. Troppo lento, troppo ragionato. Preferisco quello inglese o spagnolo. In Italia si pensa troppo, e quando pensi troppo arrivi tardi. Come dicono i buddhisti: il pensiero va lasciato andare".

Ultima domanda: che differenze vede tra la Serie B di ieri e quella di oggi?
"La qualità. Oggi ce n’è molta meno. All’epoca giocavamo contro Juventus, Napoli, Genoa, Bologna. Era una palestra di ferro. Ora le partite sono più lente, più tattiche, meno emozionanti. È una questione di gusti, ma per me quel calcio lì era un’altra cosa".

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