Di Michele: “Spalletti è il migliore, ma una volta lo feci arrabbiare molto. Dovettero trattenerlo”

David Di Michele oggi ha 49 anni ed è l'allenatore dell'Ugento, squadra pugliese che milita in Eccellenza. In Serie A lo ricordiamo con le maglie di Salernitana, Udinese, Reggina, Palermo, Torino, Lecce, Chievo ma anche in Premier col West Ham. Nel corso di un'intervista a Fanpage l'ex attaccante si è raccontato parlando della sua carriera tra aneddoti e curiosità. Un viaggio attraverso ricordi e incontri con allenatori che hanno caratterizzato il suo percorso nel calcio, come Luciano Spalletti che oggi è a un passo dal diventare il nuovo allenatore della Juventus al posto dell'esonerato Tudor: "L'allenatore migliore che io abbia mai avuto, la persona più vera mai conosciuta nel mondo del calcio". Anche se non sono mancati gli scontri verbali con l'ex Ct dell'Italia pronto a sedersi sulla panchina bianconera: "Toccai delle corde che lo fecero innervosire molto. Non avrebbe fatto nulla, però per sicurezza i miei compagni hanno pensato di fermarlo".
Cosa fa oggi David Di Michele dopo quasi 200 gol nel calcio professionistico?
"Oggi faccio l'allenatore. Attualmente sono il tecnico dell'Ugento, in Puglia. Coltivo però anche la mia passione per il padel e per il tennis".
E cosa ne pensi dell'assenza di Sinner in Coppa Davis?
"Io rimango sempre dell'idea che la maglia della nazionale non si rifiuti mai. Però poi ci sono altre dinamiche che noi non conosciamo e quindi dobbiamo anche rispettare una decisione del nostro numero uno del tennis internazionale. Sicuramente avranno parlato e messo sul tavolo tutti i pro e tutti i contro".

Quindi nessuna polemica.
"La sua assenza magari può essere utile anche a dare opportunità ad altri perché il tennis italiano sta incominciando a crescere molto di più rispetto agli ultimi anni e quindi ci sono anche tanti giovani che stanno emergendo e che stanno facendo veramente grandi cose. Secondo me in questo modo si riesce a dare spazio ed opportunità ad altri che sono in crescita".
Oggi Di Michele avrebbe giocato in Nazionale? Perché è diventato così semplice vestire la maglia azzurra?
"Oggi sì, sicuramente. Attualmente vestire la maglia azzurra è semplice perché sicuramente rispetto a quando giocavo io c'erano altri tipi di calciatori, ma soprattutto giravano soldi e il calcio italiano poteva prendere chiunque. Negli anni poi questo è venuto un po' a mancare e le altre nazioni sono diventate più forti economicamente e di conseguenza l'Italia oggi non può competere con il calcio inglese e gli altri campionati come quello arabo il quale ha una forza economica immensa".
Come ti spieghi il problema dei giovani, cosa manca all’Italia?
"Io parto dai settori giovanili che non curano più la crescita dei giocatori. Si bada solo a vincere e per questo motivo si prendono i giocatori strutturati che magari nel corso degli anni poi si andranno a perdere lasciando però per strada ragazzi meno strutturati, ma che hanno molta più prospettiva".
Ma ci sono anche altri problemi?
"Sì, gli allenatori. Ci vogliono allenatori specializzati che insegnino a giocare a calcio, a mettersi col corpo, a farli crescere, non trovare solo quelli che vogliono vincere. Oggi l'allenatore nel settore giovanile deve insegnare, far crescere il livello tattico e tecnico di un giocatore, ma soprattutto mentale dei ragazzi che poi potrebbero essere il fiore degli occhielli di una società".
Hai vissuto anche un’esperienza all’estero al West Ham, che differenza hai notato con l’Italia?
"La prima cosa che notai erano le regole. Loro sono molto ligi alle regole".

In che senso?
"Ricordo che una volta ero in macchina e vedevo la fila delle persone per attendere l'arrivo del pullman. Pioveva, ma nonostante questo, c'era una fila indiana lunga 30 metri. In Italia questo non accade. Un atteggiamento che ritrovavo anche in campo dove notavi la programmazione e il rispetto dei ruoli. Poi è chiaro che a fare la differenza era ed è ancora la forza economica e i giocatori che si riuscivano a portare in quel campionato".
Cosa è rimasto a Re David di Salerno? Il tuo primo ricordo nella piazza dove sei esploso.
"Sicuramente la mia la prima partita in Serie A Salernitana – Milan. Da brividi. Tutt'ora adesso, mi vengono i brividi solo a pensarci perché c'era uno stadio stracolmo, le persone uscivano da tutte le parti. Quella è stata una cosa bellissima così come bellissimi sono i ricordi legati a Salerno".

La tua cessione da 24 miliardi di lire all’Udinese salvò la Salernitana dal fallimento.
"Sono orgoglioso di aver contribuito ad evitare in quegli anni il fallimento della Salernitana con la mia cessione. Questo mi inorgoglisce perché vuol dire essere riusciti a non far sparire il calcio a Salerno perché sarebbe stato veramente drammatico. È una cosa impensabile immaginare il calcio senza la Salernitana e Salerno".
Lì trovasti Spalletti, che ricordo hai dell’ex ct dell’Italia?
"Spalletti per me rimane l'allenatore migliore che io abbia mai avuto, la persona più vera mai conosciuta nel mondo del calcio. A me ha dato tantissimo, mi ha fatto veramente fare il grande salto di qualità sia come giocatore che come persona aiutandomi tantissimo. L'ho fatto penare tantissimo, ti dico la verità. Ci siamo anche scontrati, ma sempre nel massimo rispetto e la massima stima che lui aveva nei miei confronti e io soprattutto nei suoi".

Ti hanno sorpreso i suoi successi in questi anni?
"Per me è un allenatore assoluto e quello che ha fatto negli ultimi anni è stato qualcosa di grande. Mi è dispiaciuto che in nazionale non sia riuscito a fare quello che lui aveva in testa per motivi che noi non sappiamo, però anche questo fa parte del gioco e mi auguro che prima o poi riesca a rientrare nel calcio che conta e dimostrare il proprio valore, anche se non deve dimostrare nulla".
Qual è l’aneddoto che ti lega di più a lui?
"Quando si arrabbiava e quando io lo facevo arrabbiare ti posso dire che i miei compagni l'hanno dovuto trattenere".
Raccontaci, cosa successe?
"Mi sostituì durante una partita e io uscendo feci un gesto brutto dando un calcio a una bottiglia, tirando via il giaccone. Insomma, gesti che agli allenatori danno fastidio. Negli spogliatoi poi lui si è sfogato e aveva tutte le sue buone ragioni per farlo".
E i tuoi compagni dovettero trattenerlo?
"Non avrebbe mai alzato le mani, però sono consapevole che in quell'occasione ho toccato delle corde che l'hanno fatto innervosire molto. Non avrebbe fatto nulla, però per sicurezza i miei compagni hanno pensato di fermarlo. Un uomo di 1,90 è dura fermarlo (ride ndr)".
È vero che eri pronto a giocare nell'Inter di Ronaldo?
"Fu un rimpianto non andare all'Inter perché nel calcio i treni passano una volta sola e a me sono passati un paio di volte. Ma purtroppo quel treno non l'ho mai preso. Non l'ho mai potuto prendere non per colpe mie, purtroppo per colpe di altri. Ricordo che all'Inter in quel momento mancava una punta e misero gli occhi su di me. Ero un giocatore appetibile per l'età e per le mie caratteristiche che erano diverse magari da quelli che erano nella rosa dell'Inter e quindi credevano che potessi essere un giocatore adatto a quello".
Cosa successe?
"Non fu trovato l'accordo con la Salernitana e alla fine l'Inter mollò prendendo Robbie Keane che poi mandarono via dopo due mesi. Peccato".

Eri nell’Italia di Lippi nel 2005, credevi nella convocazione per i Mondiali poi vinti nel 2006?
"Io ero nei probabili 35-50 pronti a essere selezionati per la convocazione. Purtroppo con l'addio di Spalletti finito alla Roma e l'avvento di Cosmi all'Udinese persi 6 mesi perché con lui non giocavo".
E come mai?
"Non me lo sono mai spiegato e non capisco il perché, forse era già prevenuto nei miei confronti, non lo so. Appena arrivato mi riprendeva, faceva battute e non è stato un amore a prima vista, anzi, poi io a gennaio sono andato via. Ai Mondiali non ci sarei andato ugualmente secondo me anche per come aveva impostato il parco attaccanti Lippi chiamando giocatori come Inzaghi, Del Piero, Totti, Toni, Iaquinta e Gilardino, però sai nella vita uno se la gioca. Con Cosmi però fu una parentesi negativa".
Ma che battute faceva?
"Io l'anno prima feci 15 gol, e lui mi diceva: ‘Non è che quest'anno giochi titolare perché l'anno scorso hai fatto di 15 gol'. Battutine del genere, a punzecchiarmi. A Lecce poi ci siamo chiariti, ci siamo parlati. Il calcio è fatto anche di questo".
Cosa successe nel 2010 al Torino con l’aggressione al ristorante e l’addio ai granata?
"Mia moglie organizzò una festa a sorpresa per il mio compleanno. A un certo punto della cena vedemmo una ventina di persone incappucciate che entrarono nel ristorante iniziando a prendere me ed altri altri per il collo, volarono degli schiaffi. C'erano i nostri figli che piangevano lì vicino a noi creando un clima di paura per ben 15-20 minuti".

Ma perché questo gesto?
"Non so, un po' i risultati che andavano male ma avrei preferito che quella situazione se proprio doveva verificarsi, sarebbe dovuta succedere nell'ambito sportivo, in un impianto sportivo del Torino calcio, non a cena con bambini e famiglie, perché è stato squallido per quello. Andai via da Torino dopo una conferenza stampa e dopo aver denunciato un po' di persone".
Dispiaciuto per aver lasciato Torino?
"Torino è una piazza importante, e mi è dispiaciuto andare via da lì perché giocare nel Toro non è da tutti, era un onore portare quella maglia. È stato il mio rammarico più grande in carriera perché far bene lì significava aver fatto qualcosa di veramente importante".
Ricordi il tuo primo contratto da professionista firmato? Cosa hai fatto col tuo primo stipendio?
"Il mio primo stipendio l'ho preso a 16 anni nella Lodigiani. A quell'età non avevo tanti grilli per la testa. Il mio primo stipendio l'ho dato ai miei genitori per tutti i sacrifici che avevano fatto per me e io i soldi li davo a loro. Era giusto contribuire in quel momento che potevo dare una mano ed ammortizzare tutto quello che loro avevano fatto per me".
Si parla sempre di difficoltà da parte dei calciatori una volta finita la carriera. Qual è stata la tua reazione? Eri spiazzato al primo martedì senza allenamenti?
"Sicuramente era diventato un meccanismo automatico allenarsi ogni giorno e poi a un certo punto non poterlo fare più ti fa trovare spiazzato e non sai cosa fare. A quel punto fai le cose che magari prima non hai mai fatto anche se però c'era la famiglia, c'erano i bambini, c'erano altre situazioni, e poi sono entrato subito in uno staff e quindi diciamo che come ho smesso ero ancora in campo ma lo facevo come collaboratore".