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Cristian Brocchi: “Mi sminuiscono, ma non ero un miracolato. Sono in Kings League non per soldi”

Cristian Brocchi si racconta dopo una carriera di prestigio, da calciatore ad allenatore: la rinascita alla Zeta Milano, l’amore per i giovani, la Kings League e la voglia di cambiare il calcio partendo dalla base.
A cura di Fabio Fagnani
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Dalla Champions League alla Kings League, Cristian Brocchi oggi è il cuore pulsante della Zeta Milano. L’ex centrocampista rossonero racconta la sua nuova vita da Direttore Generale e allenatore nel progetto guidato da Antonio "ZW Jackson" Pellegrino. Un percorso che parte dall’amore per i giovani e si nutre di passione, sacrificio e voglia di trasmettere valori. Dal rigore dei settori giovanili alle emozioni della Champions League, passando per i rimpianti, i ricordi più belli, le riflessioni sul calcio italiano e sull’anima perduta della Nazionale. Con lucidità e generosità, Brocchi svela l’uomo dietro il calciatore: un educatore, prima ancora che un tecnico.

Cristian, partiamo dal presente. Cosa ti ha spinto ad accettare il progetto Zeta Milano?

Mi ha affascinato Antonio (Pellegrino, conosciuto sui social come ZW Jackson), il fondatore e presidente della Zeta Milano, ancora prima del progetto in sé. È un ragazzo giovane (27 anni, nda), ma con una maturità rara. Rispetta tutti, crede nel merito e non fa mai il passo più lungo della gamba. Questo approccio mi ha convinto fin da subito. A pelle ho avuto una bella sensazione e poi siamo andati d'accordo. C’è stata sintonia immediata. Ho sempre amato lavorare con i giovani, dare consigli, aiutarli a crescere. E questo è proprio l’ambiente giusto. Avevo deciso di smettere di allenare per svariati motivi, tra cui la delusione in alcuni valori che ho visto nelle società, ma ho accettato di allenare la Zeta in Kings League e di intraprendere questa nuova carriera da Direttore Generale per il gruppo Zeta.

Giovani che oggi più che mai fanno fatica ad emergere in Italia.

Certo, non giocano. Preferiscono far giocare altri giocatori, di altre nazionalità che sono stati pagati, piuttosto che dare spazio ai giovani della Primavera. Non voglio più sentire dire che non abbiamo talenti. In Italia siamo pieni, ma non vengono allenati nel modo giusto. Spesso l’obiettivo è vincere la partita del weekend, non far crescere il ragazzo. Tutto nasce dai settori giovanili. Finché ci sarà la mentalità di vincere la partitina la domenica perché l'allenatore vuole passare da allenare gli Under 10 agli Under 15 perché è pagato meglio, non andremo da nessuna parte. Gli allenatori vengono premiati se vincono, non se formano. Invece, devono formare, plasmare, dare una direzione al talento presente nei giovani. Serve una rivoluzione culturale. Diamo la stessa importanza e retribuzione a chi allena gli Under 8 e gli Under 16. Iniziamo a costruire un percorso serio per ogni fascia d’età. E soprattutto, piantiamola con il mito della fortuna: io sono arrivato in Serie A perché ho lavorato ogni giorno, non perché sono stato miracolato.

I sacrifici pagano sempre.

Sembra banale dirlo, ma dei miei amici che giocavano con me, chi usciva il sabato sera, tornava tardi e non era ossessionato da questo sport, non è andato lontano. Io volevo solo giocare a calcio. Sempre e solo giocare a calcio. Certo che avrei voluto uscire, divertirmi, ma l'obiettivo era un altro e quindi ho fatto i miei sacrifici che mi hanno portato lontano. Ci mancherebbe poi un pizzico di fortuna ci vorrà sempre, ma la base è lavoro, determinazione, ossessione, fame. Sono tante le componenti che ti portano a diventare un calciatore professionista.

Come hai iniziato? 

Come tutti. Avevo una grande passione. All’epoca se avevi meno di sei anni non potevi giocare e allora andavo con mio papà, che all’epoca allenava il Cesano Boscone (provincia di Milano, nda), e mi aggregavo ai più piccoli per dare due calci al pallone. Appena ho avuto l’età giusta ho iniziato a giocare nel Buccinasco, fino all’età di nove anni, quando mi ha chiamato il Milan.

Te lo saresti aspettato?

A nove anni no, ma è il sogno di tutti quelli che giocano a calcio. Un giorno, un osservatore del Milan venne a vedere la squadra avversaria e invece di scegliere qualcuno di quella società scelse tre di noi del Buccinasco. Così iniziò tutto. Non ero un predestinato, non ho mai avuto il talento dei grandi, come Messi o Baggio, ma davo tutto e si vedeva. È questo che mi ha portato a fare una bella carriera piena di soddisfazioni.

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Da piccolo tifavi Milan?

Allora, da piccolo io non sono mai stato un grande tifoso. Amavo il calcio, ma non avevo una fede. Quando i miei si separarono, io ero ancora piccolo, mio papà ha iniziato a portarmi con lui a vedere le partite dell'Inter. E andavo in curva perché era il settore più economico dello stadio, non perché fossimo Ultras. Dai nove anni in sù, però, ero un tesserato del Milan e non mi sono mai perso una partita dei rossoneri.

Ti ha mai fatto qualche battuta su questo aspetto?

No, anzi. Era orgoglioso della carriera che stavo iniziando. Ogni tanto magari capitava che quando ci sentivamo mi chiedesse se avessi guardato l'Inter e io gli dicevo che guardavo il Milan perché giocava meglio.

Oggi non si può dire lo stesso. Secondo te questo nuovo corso con Tare e Allegri funzionerà?

Secondo me era proprio quello che ci voleva. Tare lo ritengo un grandissimo professionista e sa bene quello che fa. E poi serviva una figura che si prendesse delle responsabilità. Il calcio è dei tifosi e i tifosi non puoi prenderli in giro. Serve professionalità. Io ho avuto a che fare con Igli ed è un top nel suo lavoro. Fui il suo primo acquisto quando era direttore alla Lazio. Quando mi contattò non mi disse dove avrei giocato, come avrei giocato, ma mi ha chiesto solo una cosa: "Devi portare la mentalità vincente del Milan nello spogliatoio della Lazio". Oggi Tare quella mentalità lì ce l'ha e saprà bene come lavorare. La speranza è che possa lavorare, inserendo anche diversi italiani in rosa. Uno dei problemi del Milan degli ultimi anni è stata anche questa, l'assenza di un'anima italiana. È una cosa che fa male.

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Anche per questo le cessioni di Tonali e Daniel Maldini avevano fatto storcere il naso.

La prima in particolare perché Daniel aveva bisogno di giocare e trovare continuità, ma Sandro era un giocatore, seppur giovane, fatto e finito. Già molto forte, milanista.

Hai un rimpianto?

Credo di non averne. Tutti i sogni che avevo gli ho raggiunti e l'ho fatto impegnandomi tanto, tantissimo. Io non sono mai stato un top player. Sicuramente un ottimo giocatore. Qualche stupido ogni tanto sminuisce, ma ho fatto quasi sempre il titolare nelle squadre in cui ho giocato. Nel Milan ho giocato spesso e a volte ero la riserva di un certo Gennaro Gattuso, icona rossonera, Campione del mondo del 2006, fresco CT della Nazionale. In quel Milan poi serviva umiltà. Io davo il 110% sia se giocavo 90 minuti, sia 90 secondi. Solo così restituivo ai tifosi l'affetto e la stima, è una forma di rispetto e di lealtà verso la maglia. Così facendo mi sono ritagliato uno spazio importante in un Milan di fenomeni, forse uno dei più forti di sempre. Ecco, forse l'unico rimpianto che ho nella mia carriera è quello di non essere entrato almeno un minuto nelle due finali di Champions League che abbiamo vinto. Perché sapendo la considerazione che aveva Ancelotti di me e il contributo che avevo dato fino alla finale, me lo sarei aspettato e meritato.

E il più grande orgoglio?

Sicuramente il 2003. Le partite in Champions con l'Ajax e l'andata contro l'Inter in semifinale. Tutti si aspettavano che senza Pirlo e Gattuso il Milan sarebbe stato sbriciolato dai cugini e invece non è andata così. Mi sono fatto trovare pronto e nessuno ha rimpianto l'assenza di due grandissimi giocatori. Feci delle grandi partite e questa cosa mi ha riempito di orgoglio. Questo deve essere l'esempio per i più giovani. Non sempre puoi essere titolare in una squadra, ma puoi comunque essere protagonista. Sta a te decidere come farne parte. Io scelsi di essere un giocatore importante per quella società che fosse per un minuto o per novanta. Il mio impegno e l'amore per la maglia del Milan mi ha permesso di giocare tanto anche nel Milan.

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È questo il motivo che ti ha portato a stare vicino ai giovani?

Sì, è una scelta di cuore. Dopo aver smesso di allenare per motivi personali, ho riscoperto la voglia di stare con i ragazzi grazie alla Kings League. I miei figli mi hanno fatto scoprire questa competizione, molto ludica, veloce, giovanile e mi hanno quasi costretto ad accettare l’incarico e quando si è aperta la possibilità con la Zeta Milano, l’ho colta al volo. Non è una scelta economica o di carriera: è il desiderio di restituire qualcosa ai giovani. Voglio far capire ai ragazzi che anche giocare in una squadra dilettantistica può essere un sogno, se vissuto con passione, impegno e rispetto. Voglio essere una figura importante per loro, esserci quando sono in difficoltà, abbracciarli, dare una pacca sulla spalla, una parola per incoraggiarli.

Cosa pensi della Nazionale?

Per me è un tasto dolente. Io sono malato di settore giovanili. Tra poco uscirà un podcast a cui ho partecipato che si chiama Brocchi si nasce, campioni si diventa. Che è la mia frase storica. Sono convinto che in Italia siamo pieni di talenti, ma serve, come dicevo prima, una rivoluzione culturale. Baggio aveva fatto un lavoro meraviglioso ed era Roberto Baggio ed è stato accompagnato alla porta dalla Federazione. Ma se non consideri uno come Baggio che aveva fatto un lavoro da 900 pagine che cosa vale allora? Dov'è la Nazionale oggi? Durante la Finale di Coppa Italia c'erano tre italiani titolari, uno nel Milan (Gabbia, nda) e due nel Bologna (Fabbian e Orsolini, nda) nessuno dei quali nel giro della nazionale maggiore. Come si fa così?

Torniamo al tuo presente, cosa ne pensi della Kings League?

Da amante del calcio spero che il calcio, classico, non perda gli spettatori a favore della Kings League. Mi auguro che questa competizione acquisisca sempre più spettatori, ma senza toglierli alla Serie A o al calcio in generale. Sono due discipline diverse. Anzi, per molti calciatori che nel calcio non sono riusciti a sfondare può essere una seconda possibilità importantissima. Mi auguro che si possa regolare l'atteggiamento perché il pubblico della Kings è ancora più giovane rispetto a quello del calcio e certi atteggiamenti devono essere evitati. Detto questo sono contento di questa stagione, peccato essere usciti prematuramente dal Mondiale di Parigi, ma ci riproveremo.

Cosa ti auguri?

Magari che prima di un match di Serie A, a San Siro, le persone possano assistere a una partita di Kings League. Come se fosse un artista che apre il concerto per una band famosa. Sarebbe molto bello.

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