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Team USA contro Resto del Mondo: c’è ancora un oceano a separare il basket

Il gap tra il basket in salsa stelle e strisce e quello FIBA sembra essersi ridotto negli ultimi anni, e anche di tanto. Eppure, fatta eccezione per la debacle del mondiale 2019 e del mondiale 2006, la realtà sembra dire tutt’altro. E pur con mille attenuanti per un roster da formare sempre tra mille defezioni, un gioco ben lungi dal definirsi fluido e un regolamento che inevitabilmente non agevola le sue star, Team USA si conferma per distacco la squadra più forte al mondo.
A cura di Luca Mazzella
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Il titolo, letto così, può evidentemente suscitare più di qualche polemica. Parlare oggi di divario ancora esistente, di grosso margine tra la Nazionale di basket americana e il resto delle rappresentative, di oceano addirittura, nell'NBA con un MVP serbo, un campione delle Finals greco, un Difensore dell'anno francese e una presenza sempre più "globale" in quello che una volta era considerato lo sport degli statunitensi, può sembrare un'affermazione forte. Anche azzardata, forse. Eppure, la sensazione che si è avuta guardando Team USA sulla strada del quarto oro olimpico consecutivo dopo la disfatta in combo 2004-2006 Olimpiadi-Mondiali e il fallimento cinese del 2019, è che togliendo i tanti minuti di svogliatezza e superficialità di un roster in cui pochi hanno dato la sensazione di voler realmente schiacciare il piede sull'acceleratore a fronte di una corposa prevalenza di giocatori in vacanza o quasi, i 10-15 minuti totali di reale impegno nel corso delle singole partite disputate a Tokyo fossero il minimo indispensabile per portare a casa le vittorie e il massimo livello di impegno che si poteva pretendere da un gruppo di giocatori arrivati in Giappone dopo una estenuante stagione NBA. Come è stato per la semifinale contro l'Australia, come in fin dei conti si è verificato anche contro la Francia nella gara che valeva l'oro: un quarto d'ora o poco più di altissimi livello, tante distrazioni a far rientrare gli avversari, una nuova sterzata non appena questi tornavano a contatto.

Letta così sembra che l'unico reale avversario di Team USA sia Team USA stesso, come se non esistessero rivali nel corso dei 40 minuti, ma la verità non si discosta molto da questa visione. A 29 anni di distanza (l'anniversario cadeva esattamente ieri, 8 agosto) dall'oro olimpico di Barcellona ottenuto dal primo e originale "Dream Team", la squadra composta dai 12 migliori giocatori americani (11 in quel caso più Christian Laettner, miglior collegiale dell'epoca) presenti in NBA in quel momento (al netto di quelli che per dissidi interni ne furono esclusi, vedi Isiah Thomas), le rare sconfitte tra amichevoli (eclatanti e fortemente simboliche quelle del pre-olimpico contro Nigeria e Spagna) e eventi ufficiali non bastano, da sole, a provare il tanto annunciato azzeramento del gap USA-FIBA, dal momento che fatti alla mano pochi minuti di altissimo livello di Kevin Durant e Jrue Holiday si sono rivelati necessari ad abbattere ogni resistenza, anche in una squadra molto lontana dall'attaccare in modo accettabile e troppe volte rifugiatasi nelle prodezze del suo giocatore più rappresentativo. Circostanza, quest'ultima, che aveva messo sul banco degli imputati persino il totem Gregg Popovich, uno dei più vincenti allenatori di sempre, che più di tutti forse ha avvertito il reale peso di un possibile fallimento della spedizione, sfogando poi tutta la tensione nel dopo-gara con la Francia.

Considerati tutti i fattori che storicamente complicano e di molto la spedizione americana rispetto alle altre (una formazione del roster "itinerante" vista la difformità tra i nomi di prima convocazione e gli effettivi presenti dopo defezioni varie, e un diverso metro arbitrale su tutto), una squadra che non riesce nemmeno ad avvicinarsi a portare i reali migliori giocatori presenti su piazza – e non ce ne vogliano gli alieni Kevin Durant e Damian Lillard, ma con accanto Steph Curry, LeBron James, Kawhi Leonard, James Harden, Anthony Davis e tanti altri la musica sarebbe stata ulteriormente diversa – e che si concede un quarto e mezzo o due di gioco alla massima intensità sulle due metà campo per poi annaspare nel più totale lassismo misto a anarchia durante il resto della partita, non può che definirsi distante ancora anni luce dalle altre nazionali. Il cui fronte NBA continua a rimpinguarsi di nuovi elementi (la Francia finalista aveva 5 giocatori NBA, l'Australia terza giocatori del calibro di Mills, Ingles, Thybulle, la Nigeria eliminata ai gironi addirittura di più) salvo però trovare un ostacolo comunque insormontabile in un basket che non brilla per fluidità e distribuzione dei possessi, ma al quale basta un solo extraterrestre e il supporto del giusto secondo violino (nel caso di specie Kevin Durant e Jrue Holiday), un Lillard a mezzo servizio e un Tatum non certo in formato Celtics per mettere in chiaro i concetti con una serie di mini-parziali che sono stati, attacco-difesa, il leit-motiv di tutto il torneo. E che hanno toccato l'apice nella finale contro i francesi, dove l'andamento di un'intera competizione non poteva trovare miglior manifesto nella singola partita. Stati Uniti avanti, vantaggio in doppia-cifra, gap ridotto a uno/due possessi dagli uomini di Collet e nuovo parziale, e così via, fino all'oro.

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Gap sempre più ridotto, così lasciava presagire la sconfitta all'esordio arrivata dopo i 2 stop in amichevole, ma nella sostanza dei fatti le ultime edizioni delle Olimpiadi ci hanno regalato 4 ori di Team USA con un differenziale rispettivamente di +27.5 punti (Pechino 2008, record 8-0), + 32.5 punti (Londra 2012, record 8-0), + 22.5 punti (Rio 2016, record 8-0), + 20.5 punti (Tokyo 2021, record 5-1). Il tutto nonostante previsioni di combattutissime competizioni, ranking che vedevano gli Stati Uniti addirittura dietro altre squadre (Australia, Francia, Spagna) e la sensazione che il momento di un oro non-USA fosse davvero nell'aria, per giunta nella competizione a cui la rappresentativa a stelle e strisce ha dimostrato di tenere sempre di più, quella olimpica.

In conclusione: parlare di gap e di margine tutt’ora esistente non è un’offesa verso il basket FIBA e nemmeno una pretesa di schiacciante e supponente superiorità aprioristica americana. Il talento di Team USA, seppur progressivamente in calando se ne facciamo una questione di totalità del roster (a questa squadra mancavano probabilmente 6/7 dei migliori giocatori convocabili) e di seconde linee, è semplicemente ancora troppo superiore a quello delle altre squadre, pur al netto delle sempre più numerose star NBA non americane e attualmente ai vertici della lega più amata del mondo. L’impossibilità di lavorare su un unico gruppo per più anni unito alle differenze sostanziali di regolamento e arbitraggio hanno fatto il resto, ma è un resto che evidentemente non ha ancora colmato il famoso oceano tra le parti. Per spodestare gli Stati Uniti dal gradino più alto del podio occorre ancora molto tempo.

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