“Ma guarda quella che cesso!”
Qualche giorno fa Marion Bartoli ha vinto la finale di Wimbledon. Probabilmente ricorderemo a lungo, più della sua prima vittoria nel Grande Slam, la polemica sollevata dal commento di John Inverdale, commentatore della BBC. Eccolo per intero (nel video in apertura è possibile ascoltare la cronaca):
I just wonder if her dad, because he has obviously been the most influential person in her life, did say to her when she was 12, 13, 14 maybe, ‘listen, you are never going to be, you know, a looker. You are never going to be somebody like a Sharapova, you’re never going to be 5ft 11, you’re never going to be somebody with long legs, so you have to compensate for that.You are going to have to be the most dogged, determined fighter that anyone has ever seen on the tennis court if you are going to make it’, and she kind of is.
Il termine fuori luogo – anche volendo essere l’avvocato difensore di Inverdale – è “looker” (una bellezza, una persona attraente e tutti i vari sinonimi più o meno colloquiali). Il resto potrebbe riadattarsi a una valutazione sportiva: “non avrai mai, figlia mia, gambe lunghe (per correre, non per farti le foto) e quindi dovrai essere una caparbia lottatrice, dovrai supplire a un fisico diverso da quello ricevuto in dono da Shaparova (dal punto di vista atletico e non meramente estetico) con il carattere”. Si potrebbe anche questionare sulla mossa di avere immaginato quelle parole nella testa del padre, senza insomma avere il “coraggio” di dirle lui, ma forse stiamo scivolando in un’analisi microscopica quando ci troviamo al cospetto di un elefante. La prima considerazione non riguarda Inverdale: il commento sulla non avvenenza di Bartoli sbiadisce a confronto di quello che si poteva rintracciare su Twitter. Ecco una selezione fatta da Every Day Sexism:
“Orrenda” e “maiale sudato” sono tra i commenti meno aggressivi. Ricorrente la definizione “talmente cessa da essere antistupro” – eterna semplificazione delle violenze sessuali, con un miscuglio di “blame the victims” e di confusione tra desiderio e aggressione, tra seduzione e stupro. È un peccato che l’Istat non abbia incluso tra le variabili l’avvenenza. Per la prossima rilevazione, accanto alla ripartizione geografica, allo stato civile e alla condizione professionale si potrebbe contemplare anche “looker” da 1 a 5 e magari anche la descrizione di com’erano vestite (si guardi soprattutto la Tabella 3 a pagina 6). Certo, un conto sono i bulli online, un altro un giornalista – se non rispetto all’intrinseco giudizio espresso (forse anche sul giudizio della gravità del comportamento del bullo vs. quello del giornalista), almeno sulla risonanza. Il giornalista avrebbe potuto e dovuto essere più cauto, più gentile, più in tema. Che Bartoli non sia bella non è molto rilevante.
Il primo pensiero sparso è: rilevanza. Non siamo a Miss Uk (anche se non dobbiamo dimenticare “Miss Italia: il valore sociale della bellezza”). Che abbia gambe lunghe forse sì, sarebbe stato più rilevante o almeno si poteva tentare di vederla così. Provaci tu a rincorrere una palla con 35 cm di coscia, poi provaci se te ne prestano una di 65. È chiaro che una premessa strutturale del genere ti cambia la vita, e se vuoi fare la tennista devi puntare su altri mezzi e non sulla coscia naturale. Così come se vuoi fare il giocatore di pallacanestro e sei alto un metro e 70 (mi viene in mente Larry Wright, che poi era alto 1,85 ma tra quegli altri che sforavano i due metri faceva sempre la figura del nanetto, e mi domando se qualcuno gli avrà mai detto: “sei un po’ basso per fare il cestista”, e mi domando anche se quel qualcuno ha aggiunto: “non sei nemmeno tanto bello”, OT). Comunque dicevo, Inverdale si è scusato, ha detto che non c’era cattiveria intenzionale, che secondo lui Bertoli è un modello importante per chi non ha la fortuna di avere doti atletiche naturali.
Il secondo pensiero è: contesto. Una diretta radiofonica, Twitter, una riunione di ex compagni di classe, un convegno. Il contesto riguarda anche chi dice su chi. Qualche tempo fa sulla rubrica “Dear Prudence” una madre raccontava: mio figlio ha molti amici afroamericani, tra loro usano la parole “negro” e quando ho sentito mio figlio usarla m’è preso un colpo. È evidente che è tutta un’altra storia sentirla pronunciare da un ragazzino bianco, pur sapendo che non c’è alcuna intenzione razzista.
Considerazioni simili potremmo farle su “frocio”, o“grasso”. È la stessa differenza che passa tra coming out e outing? O è più una questione di forma: anziano è meno offensivo di vecchio? Diversamente abile da disabile (su contesti, intenzioni, stereotipi e fatica interpretativa si veda Pixies: Just the Latest Rockers to Make Violence Against Women Look Cool)? Non ricordo di preciso che convegno fosse, ma sicuramente aveva a che fare con la rappresentazione dell’omosessualità da parte dei media e una tipa disse qualcosa cosa come: “frocio” (o “checca”) non è mai una brutta parola. Ora, possiamo solo accennare alla difficile valutazione semantica contestuale e tutto il resto (con annessi commenti sul politicamente corretto e il moralismo, che ultimamente va molto di moda), ma io stavo per alzarmi e dire:“posso fare una domanda alla vecchia cicciona seduta a destra con la ricrescita” per vedere l’effetto che faceva. Poi mi sembrava brutto e, vittima della mia stessa codardia moralista, sono andata via.
Il terzo pensiero è: genere. A Ivan Lendl avrebbero detto che era brutto? A Jimmy Connors? (Io su Connors ho pensato parole irripetibili, e non avevano a che fare con il suo talento atletico). La bellezza maschile ha confini meno netti? O canoni meno rigidi? Oppure non è tra i requisiti più richiesti, agli uomini si chiede potere e spalle larghe? Se poi qualcuno sospetta che alcune donne siano troppo sulla difensiva, bisogna anche ricordare che potrebbe essere difficile non essere sulla difensiva, e che per smaltire un passato patriarcale tanto invadente un po’ ce ne vuole (penso a quello diceva J. M. Coetzee per i bianchi rispetto ai neri, condannati a coltivare un senso di colpa anche senza essere direttamente responsabili di alcun gesto di discriminazione e di sudditanza; l’analogia potrebbe valere per chi è stato oppressore, o meglio per chi ha ereditato un’ombra? Pur respingendo l’idea della colpa dei padri, potremmo facilmente intravedere che il nostro passato incide sulle reazioni emotive attuali).

Il quarto pensiero è: uguaglianza. E se torniamo da dove siamo partiti – Wimbledon, rappresentazione dorata delle disparità di genere e di potere – non si può non rilevare che la coppa va al maschio, il piatto alla femmina. E certo di passi avanti ne sono stati fatti, e la polemica è ancora infuocata. A cominciare dai soldi del montepremi (una “curiosa anomalia” era segnalata il mese passato). La battaglia contro il sessismo, iniziata da Billie Jean King, è costellata di aggressioni feroci e di epiteti che, ancora una volta, fanno ombra a quella bonaria negazione di essere una futura “looker”. Molti anni fa Richard Krajicek – famoso per aver battuto Pete Sampras a Wimbledon nel 1996 – aveva detto che le tenniste erano all’80% delle ciccione pigre maiale (“fat, lazy pigs”).
In un mondo di fatto davvero uguale, sarebbe meno disturbante ascoltare insulti e valutazioni fuori tema? Io – e sottolineo io – sarei capace di farmi una risata se uno mi dice “cessa”, e forse lo sarei tanto più in un contesto paritario. Se guadagno come te, se posso diventare quello che diventi tu. Forse se non mi sento cesso andrà ancora meglio, ma è indubbio che il potere giochi un ruolo fondamentale: non è poi così lontano il tempo in cui le donne non potevano accedere alla carriera di magistrato (erano gli anni Sessanta) o erano trattate come un armadio (si veda il diritto di famiglia prima della riforma degli anni settanta e il codice Rocco che considerava la violenza sessuale come un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume).
Il quinto pensiero è: cautela, e potrebbe essere una variante del contesto. L’invito a pensare prima di aprire bocca o scrivere un commento è più imperioso per un cronista che per l’utente che sbava sul proprio profilo Twitter. Secondo lo stesso principio che vale per Spiderman: a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità. Un giornalista della BBC ha verosimilmente, se non più poteri, almeno più responsabilità di Sam Arican che consiglia a Bartoli di rifarsi il seno con i soldi vinti (concludendo con il sempiterno “ugly bitch”).
Il sesto è: ipocrisia. In quanti lo abbiamo pensato guardando Bartoli? Ma è rilevante? È già grave? Sintomatico di un sessismo irreversibile? Io quando vedo qualcuno mi faccio un giudizio estetico. La raffinatezza formale dipende dai momenti: posso pensare con tono corretto bello/brutto, affascinante/scialbo, ma posso anche scegliere una versione greve, maleducata, ruvida. Sono in vantaggio perché sono donna? Forse emotivamente, ma se l’avessi detto io ai microfoni della BBC “però, questa Bartoli non è certo una bellezza, glielo avrà detto suo padre” e tutto il resto, sarebbe più, meno o ugualmente grave (o irrilevante, se pensate che lo sia)? Tra l’estremo invito a tacere e la brutale esposizione della verità – come in The invention of lying, in cui potremmo immaginare secchi commenti come: “sei un cesso, sei così e così, sei bella” – potrebbe esserci un terreno variegato e nebbioso. Certo è che “il corpo è un tema” (Culona a chi?), e dovremmo decidere come parlarne, cosa tacere e quando, ma non fare finta che non ci facciamo caso.
In conclusione, la risposta migliore l’ha data Marion Bartoli stessa : Non sono bionda e allora? Il mio sogno era quello di vincere Wimbledon (“It doesn’t matter, honestly. I am not blonde, yes. That is a fact. Have I dreamt about having a model contract? No. I’m sorry. But have I dreamed about winning Wimbledon? Absolutely, yes”).