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Opinioni

Tutto chiede salvezza 2 ci insegna che non si scappa dal dolore, ma c’è sempre un modo per affrontarlo

La recensione della seconda stagione di Tutto chiede salvezza, la serie Netflix diretta da Francesco Bruni, con protagonista Federico Cesari. Anche stavolta il dolore è al centro del racconto, ma è la consapevolezza di poterlo affrontare a fare la differenza.
A cura di Ilaria Costabile
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Tutti nasciamo pazzi, alcuni lo rimangono” diceva Samuel Beckett ed è la stessa frase che campeggia sulle pareti del reparto di psichiatria che fa da sfondo alla seconda stagione di Tutto chiede salvezza, la serie Netflix, i cui primi episodi nel 2022 furono tratti dall’omonimo libro di Daniele Mencarelli e che torna, in questo secondo capitolo, più dirompente che mai.

Si parla tanto di salute mentale, o meglio, si discute del fatto che non se ne parli abbastanza, non nella giusta maniera, soprattutto non con la dovuta intensità. I perché di questa reticenza potrebbero essere molteplici, ma sono spesso legati a doppio filo con la morale, con la percezione che gli altri hanno di noi, del nostro sentire, per cui il silenzio sul disagio psichico e psicologico deriva, principalmente, dalla paura del giudizio. Una serie come Tutto chiede salvezza mostra chiaramente che non esiste una morale nel dolore, non è mai netto il confine tra giusto e sbagliato, tra buoni e cattivi, tra reale e immaginario, l’unico vero e tangibile confine siamo noi.

Daniele Cenni (un bravissimo Federico Cesari) torna nel luogo in cui è stato costretto a mettersi in contatto con sé stesso, con il suo lato oscuro che lo rendeva riottoso nei confronti di una vita che non prendeva la giusta piega. Viaggia nei meandri dei suoi pensieri, dei suoi stati d’animo, lo fa con sofferenza, con rabbia, ma riesce a capire che la sua sensibilità, la sua propensione all’ascolto, come l’estrema irascibilità, derivano da una grande capacità di sentire, di empatizzare, di entrare in contatto con il dolore dell’altro. E questo diventa una risorsa, sebbene in certi casi suoni più come una condanna.

Daniele torna, ma lo fa da infermiere, torna dal lato di chi quel dolore, a volte arroccato, incrostato alle pareti di un corpo inerme, ha il compito di accoglierlo, di non giudicarlo, di placarlo. Ed è così che al posto dei suoi compagni di stanza, troverà dei pazienti.

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Ma se il prendersi cura degli altri non è mai stato un problema, è il dover stabilire fino a che punto il dolore altrui può intrecciarsi con il proprio, che diventa difficile da gestire. Soprattutto quando alle azioni, sconsiderate, seguono conseguenze che potrebbero avere dei risvolti negativi, che puntano a definire la persona senza conoscerla davvero.

In questa seconda stagione il dolore si manifesta sotto varie forme, in maniera più capillare e talvolta nascosta della prima. C’è il dolore di una madre, quella di Daniele che vede suo figlio ricadere nel baratro e perde la speranza che possa cambiare e aiutarsi davvero; quello di Nina, ora giovane mamma, che non riesce a non lasciarsi condizionare dagli altri, perché non si conosce davvero e lascia che sia sua madre a decidere per lei, perché scegliere quando non si ha contezza dei propri desideri è la cosa più difficile che si possa fare. C’è il dolore di Angelica, una delle new entry, che cerca di scacciare l’immagine di un padre mostro che, però, impara a conoscere dai racconti di chi quella mostruosità non l’ha mai vista; c’è quello di Rachid che non si sente accettato, che è rabbioso nei confronti di un mondo che lo usa, che non lo considera, che non gli permette di essere qualcuno e la violenza, verbale e fisica, diventa l’unico sfogo possibile di questa sofferenza perpetua; c’è Gianluca che soffre perché ammettere di amare qualcuno, a volte, è una sofferenza, soprattutto quando quel qualcuno si sa per certo che non potrà ricambiare.

E infine c’è il dolore di Matilde, quello più potente, più distruttivo di tutti: il dolore che viene dal rimpianto, dalla mancanza, dal vuoto. Drusilla Foer incarna alla perfezione il sentimento struggente e deleterio di chi il dolore lo trasforma in odio: “È l’unica cosa che mi tiene in vita, quando smetterò di odiare morirò” dice al dottor Mancino, ed è forse la declinazione più difficile da accettare, quella di una sofferenza che non si piega su stessa, ma si riversa con forza all’esterno, per poi tornare come un boomerang e colpire, ancora più forte, senza aver riempito quel vuoto immenso lasciato da una persona che non tornerà più e che, forse, poteva essere salvata.

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Il dolore torna, quindi, ma Francesco Bruni è in grado di raccontarlo con estrema semplicità, tanto che è impossibile non vederlo, ma soprattutto è impossibile non cercare di ridimensionarlo, di attutirne i colpi. Daniele, che ormai è diventato padre, sa che la responsabilità più grande di cui è investito è quella di riconoscersi, di accettarsi, accogliere il suo buio, senza provare a scacciarlo: “Non si scappa dai pensieri” gli dice il dottor Mancino e sarà lui stesso ad ammettere: “Tanto il dolore non se ne va”.

No, il dolore non va via, ti attraversa, ti svuota, ti accompagna e se veicolato, ascoltato, accolto nella giusta maniera, ti matura. Ma da soli non è possibile farlo, senza farsi inghiottire dalla paura.

E, quindi, ancora una volta la salvezza cos’è? È l’incontro con l’altro, è abbandonarsi all’idea che qualcuno possa riconoscerti e accettarti, ma soprattutto riesca ad allentare la presa di quella morsa che si chiama sofferenza e che, spesso, siamo noi ad infliggerci.

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Nata nel 1992, giornalista dal 2016. Ho sempre scritto di cultura e spettacolo spaziando dal teatro al cinema, alla televisione. Lavoro nell’area Spettacolo di Fanpage.it dal 2019.
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