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Opinioni

Sì, The Bear su Disney+ è il capolavoro che tutti dicono

The Bear, la nuova serie Disney Plus, è davvero il capolavoro di cui tutti parlano. Il mondo della cucina è ingegnoso pretesto per parlare di salute mentale, dell’orso che può manifestarsi in ognuno di noi e davanti al quale è inutile fingersi morti. Anche quando di più spaventoso dell’orso, a volte, c’è solo la vita. La recensione.
A cura di Grazia Sambruna
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Su Disney Plus c'è The Bear, la serie ambientata in una lercia tavola calda della periferia americana, mal gestita da gente ancor più pulciosa. Disponibile da una settimana scorsa, sia negli Stati Uniti che in Italia, ne stanno tutti parlando come di un capolavoro, forse il miglior prodotto seriale dell'anno. La prima notizia è che hanno ragione. Magari anche per questo, risulta complesso analizzare le otto puntate della densissima stagione d'esordio con protagonista Jeremy White, il Lip Gallagher di Shameless.

Non un'altra comedy, anzi proprio per niente. C’è un orso in una gabbia sul ponte della street, c’è un liquore giapponese alle prugne – ci vogliono 12 ore per renderlo denso sì, ma anche morbido, della stessa consistenza di un orsetto gommoso, serve per guarnire un piatto gourmet: c'è chi ci sta dietro un anno per arrivare a farlo "bene". C’è una stagista che è già grande ma da grande vuole aprire un ristorante anche se col catering dal garage di casa le è andata male, c’è un tizio che dorme in cucina perché non ha una casa ma nessuno lo sa, intanto lui vuole fare la ciambella perfetta, di quelle che se dovessi mai avvicinarle all'orecchio sentiresti "l'odore di nonna", di quelle che ti fanno stare subito "bene".

C’è un altro che si è sparato in bocca pochi mesi prima e quello che s’è quasi preso una coltellata in culo, c’è Carmy (Jeremy White) che si sveglia di notte urlando senza sapere perché quindi ha smesso di dormire "bene", c’è un debito da 300mila dollari e una tavola calda lercia che non ne vale nemmeno un centesimo, ci vanno i pusher ma solo per spacciarci di fronte, ci va anche la gente che non ha voglia di mangiare "bene", solo di sfamarsi veloce sperando nell’escherechia coli che tanto poi di qualcosa si crepa e magari questo sarà il giorno buono. O forse è il giorno in cui sparano in vetrata e non c’entrano nessuno. The Bear non è una commedia. Bene, allora di cosa parla The Bear?

In apparenza, di niente. Lo spettatore vede scorrere davanti a sé il caotico e potenzialmente letale (per i clienti) menage quotidiano nella cucina di una tavola calda tra padelle che volano, sigarette di fianco ai fornelli e l'acqua calda che sgorga dai lavandini, sì, ma dopo un po'. C'è da farci l'abitudine e una volta che lo sai, va "bene". In questo contesto, arriva Carmy che a 21 anni era stato definito dalla stampa di settore "lo chef migliore del mondo". Suo fratello si è suicidato pochi mesi prima e gli ha passato in gestione questa squallida sòla, con gabbia di matti annessa. Gridano, non rispettano la minima regola igienica né ne colgono la necessità, c'è un buco nel pavimento ma basta schivarlo e non fare storie che qua la Michelin è solo l'ortografia sbagliata di una qualche cantante italiana. Carmy ha molte opportunità di dare il ben servito, ma resta lì e cerca di cambiare le cose, di migliorarle.

Fortunatamente, The Bear non è una serie sulla resilienza. Jeremy White con i suoi occhi del colore di un cielo perennemente terso, non lascia trapelare alcuna emozione dal volto del personaggio a cui dà vita. Non è possibile prevedere una giornata di sole o di tempesta. Non lo sa nemmeno lui, in effetti. Da anni, è oramai iper-concentrato sulle referenze, sull'esatta quantità di sale dell'Himalaya da aggiungere a un piatto gourmet per renderlo perfetto. Per farlo "bene". Ora che si trova a preparare hot dog, ha lo stesso atteggiamento metodico, torna a casa e guarda programmi di cucina fino a prendere sonno, salvo poi svegliarsi, mettersi a spadellare e dar fuoco al pulcioso monolocale in cui abita. The Bear parla di come la tua passione possa logorarti lentamente, inesorabilmente se ti ci lasci inghiottire? Anche. Ma scava più a fondo di così. Come in una sessione di sedute dall'analista, si parte dai sintomi, quelli più evidenti, per arrivare alle origini dei comportamenti stravaganti, tossici o dannosi che ogni personaggio adotta mentre dice di stare "bene". In effetti, ognuno di loro è un essere umano perfettamente funzionale: respira, va al lavoro, dice buongiorno, dice buonasera, ignora. 

I ritmi serrati che scandiscono il tempo in una cucina, non importa se stellata o più simile a una stalla, mantengono altissima la concentrazione di chi ci lavora, impedendogli di guardare oltre. Se solo riuscisse ad alzare lo sguardo da fornelli e dispense, ecco, lo vedrebbe. Non il proverbiale elefante nella stanza, quello che per modo di dire, siamo abituati a ignorare, nonostante le dimensioni. Da Carmy in poi, ogni personaggio di The Bear finge di non scorgere un gigantesco orso nero infuriato, un animale ferocissimo che non sta in una stanza, ma in ogni stanza. Lo hanno chiuso in una gabbia tempo addietro e lì lo tengono, nella speranza che non riesca a liberarsi, salvo poi portarlo con sé in ogni dove. Perché di loro stessi fa parte. L'orso può essere il dolore per un lutto, lo straziante senso di colpa per non essere stati vicini a una persona che poi, una brutta sera, ha deciso di farla finita. E lo sapevi bene che sarebbe successo. L'orso è il rapporto con una figlia di cinque anni che pensa che il tuo vero cognome sia "Badnews" ("Brutte Notizie, ndr) perché sua mamma così ti ha salvato nella rubrica del telefono. L'orso è un progetto lavorativo fallito miseramente tra fischi e pernacchie, quando tutti te lo avevano detto di lasciar perdere, fin dall'inizio. L'orso è l'esplosione silente che deflagra in ognuno di noi quando diciamo di stare bene ma così non è. 

È difficile affrontare l'orso. Prima di tutto, perché si sceglie di non vederlo preferendo trascinare la nostra attenzione verso qualcosa di diverso, magari pure impegnativo. Anzi, meglio se impegnativo. In questo senso, la scelta di adattare una storia che, senza dirlo esplicitamente, tratta di salute mentale, elaborazione del lutto, suicidio e ansie ferali in una cucina, tanto più se malmessa, è il vero colpo di genio, tra i tanti, della sceneggiatura. In una cucina si può dire solo "Sì, chef" e far muovere le mani dall'alba alla notte. Non c'è tempo di distrarsi, di perdersi in pensieri che non si vogliono nemmeno avere. Perfino in pausa sigaretta i protagonisti, prevalentemente uomini, fingono di scambiare due chiacchiere, ma non parlano mai. A meno che non ci sia da fare a gara a chi piscia più lungo. Xanax in tasca e maschioalfismo come soggetto sottinteso, i nodi verranno al pettine lo stesso. Come? Alzando lo sguardo dai fornelli e decidendo di farsi aiutare, pur rimanendo convinti di non aver alcun bisogno di sostegno. Piano piano, la scorza verrà sbollentata.

The Bear insegna ad aver cura del proprio orso, a dargli un nome, fino ad addomesticarlo. Perché conviverci, tocca conviverci. Non l'hai creato tu, magari, nemmeno lo volevi, ma ora è lì, bisogna farci i conti. E può diventare qualcosa di luminoso, perché, come ogni storia che parte male, può avere il suo lieto fine. Ogni fine ha, però, un inizio. E l'inizio è smettere di distrarsi, di ripetersi che sia sufficiente fare le cose "bene", per stare "bene". Al mondo non ci sono abbastanza patate da sbollentare per consentire a ognuno di noi di farlo per tutta la vita, senza badare ad altro.

The Bear è un invito, di più, una sfida: davanti a un orso, non fingerti morto. Chiedi aiuto. Sì, chef? 

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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