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Opinioni

La serie Dahmer su Netflix mangia il cervello, soprattutto quello di razzisti e omofobi

Dahmer, la serie Netflix di Ryan Murphy, non è solo la storia del Cannibale di Milwaukee. I dieci episodi si insinuano tra le pieghe delle storture più malsane della società, tra razzismo, omofobia e pregiudizi, riemergendone con un inquietante interrogativo: potrebbe succedere di nuovo? La recensione.
A cura di Grazia Sambruna
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Nel 1994 un trentaquattrenne viene massacrato di botte e muore. In carcere. L'uomo si chiamava Jeffrey Dahmer e nessuno ne ha mai davvero pianto la memoria. Tra i serial killer più folli e spietati d'America, dal '78 al '91 ha seminato il panico mietendo diciassette vittime, quasi tutti uomini neri e omosessuali. Si guadagnò un soprannome: "Il cannibale di Milwaukee".

Oggi la sua vita è raccontata nella serie Netflix Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, già un piccolo grande cult. Considerata la sconfinata vastità dei titoli che le piattaforme di streaming generano ogni giorno per attrarre la nostra fame di binge, come mai queste dieci puntate dal tema tanto scabroso e respingente sono sulla bocca di tutti? Primo motivo: la sceneggiatura è di Ryan Murphy (che è tornato ad aver voglia di raccontare come si deve). Secondo: la serie mangia il cervello. Soprattutto quello di razzisti e omofobi. Non si può non rimanere sconvolti dall'efferatezza con cui l'arco narrativo di Dahmer viviseziona fatti che toccano la nostra società ancora oggi, nel profondo. Un viaggio all'inferno, così lontano eppure così pericolosamente vicino alle radici del Male.

Cosa fa più paura? Avere la certezza di abitare nell'appartamento di fianco a quello di un assassino seriale oppure sapere che chiamare la polizia sarà del tutto inutile perché non interverrà? Ritrovarsi catturati da uno psicopatico che vuole sciogliere le sue vittime nell'acido o riuscire a sfuggirgli ed essere scambiati per tossicodipendenti in pieno delirio da overdose? Sono innumerevoli le chiamate che, nel corso degli anni, hanno raggiunto la questura di Milwaukee per dare l'allarme: riportavano di aver sentito grida, nauseabondo e persistente odore di carne marcia, di aver visto giovani correre, terrorizzati e nudi, per i corridoi del palazzo. Sempre lo stesso palazzo.

Nessun agente si è mai sentito in dover di controllare, se non una volta: era il 1987 quando un paio di poliziotti, allertati dai residenti, trovarono il quattordicenne di origini nativo-americane Jamie Doxtator nell'androne dello stabile in cui Dahmer risiedeva. Il ragazzo perdeva sangue della testa ed era in uno stato di semi-incoscienza. Lo lasciarono lì, anzi, lo riconsegnarono al suo carnefice. A parer loro, l'uomo "risultava credibile" senza nemmeno aver bisogno di chiedergli un documento di identità. Se lo avessero fatto, avrebbero scoperto i suoi precedenti per violenza sessuale su minori. Perché tutta questa negligenza? Dahmer aveva scelto, con calcolo, di trasferirsi in un quartiere "nero" della città. E, per andare a caccia di vittime, era solito frequentare i bar gay del posto. Il colore della pelle e l'orientamento sessuale delle sue prede fungevano da criptonite per la polizia. Poteva agire indisturbato.

Non è un'esagerazione: i due agenti che riconsegnarono il quattordicenne a Dahmer dissero a processo di aver fatto solo un giro sommario all'interno dell'abitazione del killer perché non volevano "prendersi l'AIDS". Il "credibile" Jeffrey aveva detto loro di essere il fidanzato del ragazzo, ridotto così solo perché sbronzo. Le enormi macchie di sangue sul materasso? L'odore nauseabondo presente in quell'appartamento? I barili sigillati? "Gay stuff" ("roba da gay"), disse l'assassino alla polizia. E tanto bastò per non ricevere alcuna domanda. Se stessimo parlando di una fiction, questa storia starebbe davvero sfidando la sospensione dell'incredulità anche del più allocco dei telespettatori, parrebbe una tragi-commedia da Z-movie. Invece, si tratta di cronaca fattuale. Ed è questo il lato più profondamente horror della serie, altro che il taglia-e-cuci sulle vittime. È successo. E il punto è che non possediamo alcuna certezza sul fatto che tanta criminale ignavia, figlia del più bieco pregiudizio, possa ripetersi anche oggi. Titoli di coda. Guarda episodio successivo.

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"Ero molto spaventato", racconta Evan Peters, magistrale nell'interpretazione di Dahmer tanto da essere già in odore di Emmy, "ma volevo essere autentico". E ci è riuscito, guidato dallo showrunner che l'ha scoperto professionalmente e lanciato verso il successo, ossia Ryan Murphy. Dal punto di vista della scrittura di serie tv, Ryan Murphy è dio. Solo, un dio molto capriccioso. Probabilmente, una divinità dell'Antica Grecia, di sicuro più Zeus che Gesù. A lui dobbiamo quel capolavoro che è tuttora Nip/Tuck (2003, scandalosamente non disponibile in streaming), ma anche Glee (2009-2015) e tutta la saga di American Horror Story (dal 2011) che ha ridefinito gli standard del genere, portandoli, tra stagioni più riuscite e altre meno, sull'Olimpo. Negli ultimi anni, qualche mezza sòla. La pallida comedy The Politician, ma soprattutto Ratched (entrambe su Netflix) avevano fatto pensare che la vena creativa dello showrunner fosse pressoché esaurita. Poi, Dahmer. 

Un incubo dalla fotografia eccelsa e curatissima, con inquadrature che sembrano costantemente immerse nell'ambra come un quadro di Hopper sì, ma rancido, andato a male. L'innesto delle vere telefonate d'allarme fatte dai vicini di casa e rimaste inascoltate, l'incredibile somiglianza fisica tra l'attore e il killer, sono elementi che pongono la serie a metà strada tra fiction e documentario. L'infanzia, l'adolescenza, la maturità dell'assassino vengono ricostruite fedelmente e qui largo spazio è dato anche ai suoi genitori: cosa si prova a essere la madre del mostro? Oppure suo padre? Perché, ancora oggi nel mondo così inclusivo in cui ci convinciamo di vivere, può arrivare a mangiare il cervello. 

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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