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Alessio Vassallo è L’altro Ispettore: “Racconto storie di cui le fiction non parlano. Sono un attore grazie a un’appendicite”

Intervista ad Alessio Vassallo, protagonista della fiction di Rai1 L’altro ispettore. L’attore siciliano si racconta parlando della sua carriera ventennale, dei suoi periodi bui, della capacità di rialzarsi chiedendo aiuto, ma anche grazie all’amore di Ginevra Pisani.
A cura di Ilaria Costabile
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Quando ci sentiamo al telefono Alessio Vassallo sta tornando a casa dopo giorni trascorsi in giro, perché il lavoro dell'attore funziona così, sai da dove parti, ma spesso non sai dove finirai. L'accento siciliano si percepisce in lontananza, sebbene da Palermo sia andato via più di vent'anni fa. A 42 anni è senza dubbio uno degli attori più noti del piccolo schermo, tantissime le produzioni televisive a cui ha preso parte, da Il Giovane Montalbano a Sopravvissuti, La stoccata vincente, tanta la gavetta e la carriera alle spalle, anche a teatro. Da martedì 2 dicembre è su Rai1 nei panni di Domenico Dodaro, nella fiction L'Altro Ispettore, in cui interpreta una figura inedita per la fiction italiana, ma che tratta una tematica importante come quella delle morti sul lavoro. "Sono storie importanti, che parlano di noi, ci riportano alla realtà" racconta. La sua di realtà, oltre che del lavoro, è fatta anche dei piccoli gesti che ha imparato a scoprire accanto a Ginevra Pisani, che ha sposato lo scorso settembre.

L'altro ispettore, definiamo questo termine: altro, partendo dalla tematica. Mai si era parlato delle morti sul lavoro in una serie televisiva.

È una grande forma di responsabilità, è una serie e una narrazione nuova, per la prima volta si mette in scena la figura di un ispettore del lavoro, si parla di sicurezza e non ci dimentichiamo che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, mai serie ci appartiene di più.

Vista questa alterità, che strumenti ha il tuo ispettore rispetto a quelli che siamo soliti vedere nelle svariate serie tv crime di oggi?

È un ispettore senza pistola, che non interroga, è un ispettore gentile. La gentilezza nel mondo in cui viviamo sembra essere una qualità perduta. È un ispettore diverso perché si prende cura dei lavoratori, di quello che gli sta attorno, le sue armi sono le parole, i pensieri. La grande differenza è qui, nel non cercare risposte, ma domande, porsi le domande giuste per poi trovare le risposte.

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E tu hai fatto qualche domanda che ti ha permesso di avvicinarti il più possibile a questo ruolo?

Parlando con gli ispettori del lavoro veri, ho rubato una frase che ho messo nella serie, non c'era in sceneggiatura. Appena arrivano sul luogo di un incidente o a fare un controllo, la prima cosa che dicono ai lavoratori è "siamo qua per voi". L'ho trovata una cosa bellissima, perché instaura da subito un rapporto di fiducia.

Le morti sul lavoro rientrano in quella casistica di morti accidentali, sebbene ci sia un colpevole, non esiste movente. Ed è forse questo che rende più difficile, per i familiari delle vittime, accettare la scomparsa. 

Alla prima della serie c'era la mamma di Luana D'Orazio, la ragazza morta ed è stato emozionante condividerla con lei, perché abbiamo pensato al suo caso per la prima puntata. Le prime settimane di riprese non mi riuscivo a capacitare come si possa perdere la vita sul posto di lavoro, è un qualcosa di troppo più grande di noi, perciò storie come queste sono incamerate nella nostra mente, sono vite spezzate che abbiamo seguito per mesi.

L'altra parte, invece, quella dei datori di lavoro avete avuto modo di sentirla, di raccontarla?

Come comparse c'erano gli operai delle fabbriche in cui andavamo, ed era interessante potermi confrontare con loro, capire cosa fosse stato fatto per garantire la sicurezza. Vedere lavoratori contenti perché si sentono più sicuri, è bello proprio da cittadini. È una tematica complessa, non è mai facile trovare un colpevole. Perché a volte può essere una distrazione del lavoratore, altre volte si aggirano i sistemi di sicurezza, ma spero che una serie come questa serva a fare prevenzione. Anche nelle scuole.

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Perché proprio nelle scuole?

Una delle prime cosa che chiedi a un bambino dopo il nome qual è? Cosa vuoi fare da grande. Magari ti risponde il pompiere, il poliziotto, l'astronauta, già li proietti in una dimensione lavorativa, che da adulti diventa anche identitaria.

Alcuni tuoi colleghi dissentirebbero, direbbero di fare gli attori e non di esserlo.

No, io sono un attore. È la mia vita. Ma anche nel presentarsi agli altri, c'è questo mio amico avvocato, anche se nessuno l'ha chiesto, tutti veniamo connotati da un punto di vista lavorativo. La radice della nostra cultura è il lavoro.

Vassallo racconta di essere reduce da una serie di spostamenti a staffetta tra una città e l'altra, da Lucca a Roma, domani di ritorno ad Assisi per continuare le riprese del film Sul cammino di Francesco. La vita di Biagio Conte. "Sono in pieno delirio" dice spiegando l'andirivieni di questi giorni.

Cosa ti manca di più in questo girovagare?

La quotidianità. Vivo più in alberghi in giro che a casa e, ad esempio, odio fare la colazione in albergo, preferisco farla sgangherata a casa piuttosto che in albergo. Facciamo un mestiere da circensi, monti il tendone stai in una città e poi vai via. Quando si fa teatro ancora peggio. Ginevra (Pisani, la moglie ndr) mi ha riportato con i piedi per terra un po' a a dare peso alla alla quotidianità, fare una torta insieme, una passeggiata, le piccole cose che dai per scontate. La piccola città di Thorton racconta proprio questo, di quanto la vita sia fatta di piccoli momenti, mentre noi diamo priorità ai massimi sistemi.

Descrivendo la serie parlavi di cura, cosa significa per te prendersi cura dell'altro?

Oggi ci prendiamo cura solo di noi stessi, è una società talmente specchiata. Un selfie perenne. Significa Ascoltarlo. Una delle qualità del mio personaggio che anch'io dovrei praticare di più nella mia vita.

Pensi di non averlo fatto abbastanza?

Potrei farlo di più.

Restando nel tema della cura, hai più volte raccontato di aver attraversato momenti difficili, come la dipendenza dal gioco d'azzardo. Cosa ti ha fatto scattare l'istinto di prenderti cura di te in quel periodo buio? 

Per carattere tendo ad essere ombroso, tormentato. Ho avuto dei periodi difficili, anche di insonnia pesante, ho iniziato a prendermi cura di me chiedendo aiuto. Avere il coraggio, la forza di farlo e non vergognarsi. Da marzo riporto a teatro il Male Oscuro di Bertolt Brecht, un capolavoro del 900 che parla di depressione, veniva chiamato male oscuro perché i medici non sapevano dargli un nome, non sapevano cosa fosse. Ed è un tabù ancora oggi, purtroppo, perché se ne parla poco, perché nel dire "Sono in cura o mi sto facendo aiutare" si teme il giudizio degli altri, come se tu non fossi più performativo, ma non è vero. I periodi di difficoltà li attraversiamo tutti, ognuno di noi reagisce in maniera diversa perché abbiamo, per fortuna, possibilità e vissuti diversi e quindi bisogna chiedere aiuto, alle persone a noi vicine e a gli specialisti perché c'è gente che ha studiato per questo.

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Hai temuto di ricascarci?

Non è che ho temuto, ci sono ricascato e poi ne sono uscito completamente. Non c'è la bacchetta magica. La dipendenza può essere di qualunque tipo, o puoi avere qualunque tipo di problematica, sono mostri che si ripresentano, che bussano alla nostra porta. Sembra incredibile, ma se ne può uscire, capisci che le priorità della vita diventano altre, che quel momento di rabbia, frustrazione, solitudine non lo devi sfogare, nel mio caso sul gioco. Le dipendenze cercano di coprire qualcos'altro che non va, ma è alla fonte che devi andare.

Parlavi di solitudine, da figlio unico la conosci bene, come le vivi questa solitudine?

La solitudine è stata la mia forza, mi accompagna sempre. So stare da solo, anche questo mestiere me l'ha insegnato, quando ho bisogno di stare tra me e me, riesco a farlo anche ad una cena di Natale con 50 persone.

Nella fiction si racconta anche un ritorno alle proprie radici, ai legami familiari, che rapporto hai con la tua famiglia?

In Nuovo Cinema Paradiso, quando lui dice al ragazzo che sta andando via "Mi raccomando, parti, ma non guardare non ti fare fottere dalla nostalgia". Questa nostalgia mi ha accompagnato per più di vent'anni, sono 22 anni che vivo a Roma. Da figlio unico ho un legame fortissimo con i miei genitori, abbiamo trascorso anche natali soli noi tre, a volte se i miei litigavano pranzavo con uno e cenavo con l'altro. Conosco quella condizione familiare di isolamento, ma siamo molto uniti. Ultimamente, poi, mi sta capitando una cosa.

Cosa?

Spesso quasi non mi rendo conto di tutto quello che ho fatto, ma quando li guardo negli occhi è come se vedessi tutto quello che ho fatto in questi vent'anni, lo rivivo guardandoli.

E con la Sicilia?

Con la Sicilia ho avuto un rapporto sempre un po' contrastante, è una terra che amo, ma ancora oggi è come se mi aspettassi qualcosa, invece questo qualcosa difficilmente arriva. Però la Sicilia è un po' come una grande mamma, che quando torni ti abbraccia, cadi nelle sue braccia, li lasci andare. Noi isolani, poi, abbiamo un rapporto viscerale con la terra d'appartenenza.

Hai iniziato da personaggi siciliani, poi è arrivato Mimì Augello nel Giovane Montalbano, La Concessione del telefono e tanti altri. C'è stato un momento in cui hai pensato che saresti rimasto relegato a quei ruoli?

Devo dire no. Ho fatto tantissime fiction da siciliano, ma molte altre no. Per certi versi è stata un'agevolazione, tante cose si ambientano in Sicilia, tanto che chiamano anche attori non siciliani per farle, li hanno esauriti tutti. Molte le ho anche rifiutate, oggi sono in una fase in cui posso delineare il mio percorso artistico.

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Vent'anni di carriera. Sei soddisfatto o pensi di aver meritato di più in passato?

Non le ho mai contate, ma saranno almeno 46-47 fiction, sono soddisfatto. Ho avuto una carriera meravigliosa, ho vinto il Nastro d'argento due anni fa. Mia madre mi dice spesso una frase in siciliano che io trovo geniale. Quando mi lamento di qualcosa, lei mi dice: "Ma come che ti lamenti, già fai l'attore che non c'era messo?" Che significa, chi te lo doveva dire? Giustamente, mia madre casalinga, mio padre ragioniere, non era proprio pensabile che facessi l'attore.

Per l'appunto, qual è stata la tua illuminazione?

La mia illuminazione è stata la mia appendicite a Palermo a 17 anni. Mi hanno operato e in ospedale nel letto accanto al mio c'era un insegnate di teatro, anche lui operato di appendicite. Parlando mi disse di andare a fare un corso e una volta dimessi ci sono andato e mi si è aperto un mondo. Ero molto introverso e ho trovato un canale d'espressione meraviglioso. Mi sono diplomato e ho detto ai miei "Vado a Roma a fare l'attore". Ai tempi non c'era Google Maps, giravo con o stradale F4 F5, per cercare una strada ci mettevo una vita.

E poi hai trovato la strada per la recitazione. 

I primi mesi che ero a Roma capisco che c'era questa fatidica Silvio D'Amico. Mi sono presentato tra un migliaio di ragazzi e m'hanno preso. Ero tra i 18, diciamo, baciati dal cielo. Oggi è molto più difficile, perché ci sono troppi attori, tutti vogliono fare l'attore. Quando ho iniziato io, i miei competitor nel periodo di studio dell'Accademia erano i miei compagni di classe. Ma oggi da ventenne hai costantemente gli altri davanti, hai Instagram dove vedi quello che ha avuto successo, quello che fa il film, quello che fa il red carpet che poi magari è infelice e racconta una vita che non ha. Hai un esercito di competitor che ti dicono come dovrebbe essere la tua vita, se dovessi farlo oggi non lo farei. Io coltivavo la mia necessità, oggi si coltiva molto poco si pensa subito al risultato finale.

Dici che manca un po' di spessore?

Ma oggi c'è qualcuno che fa una battuta su Instagram, racconta una barzelletta, diventa famoso, inizia a fare i film al cinema. Di che cosa stiamo parlando? Interessa la viralità, a me personalmente no. Questo perché il contenuto non serve più, serve la confezione, quello che vedi in quell'istante.

Cosa hai scoperto di te in questi intensi vent'anni da attore?

Lo stupore, ancora lo vedo quando recito, riesco a mettere nei personaggi uno stupore che mi ricorda molto quando ero bambino. È un mestiere terapeutico, tutte le mie ombre, i miei tormenti li ho buttati nel lavoro, perché meglio farlo lì che nel privato. Però è un mestiere che amo e ho amato tantissimo, però mi ha portato molto lontano da me, da Alessio.

Hai provato a riavvicinarti?

Negli ultimi anni ho capito che il personaggio più importante da interpretare è Alessio e il matrimonio è stato una scelta anche per fare un gesto bello nei miei confronti. Ginevra è stata fondamentale.

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In cosa lo è stata?

Lei mi strappa un sorriso al giorno che è il regalo più bello, soprattutto per me. Tant'è che lei al matrimonio la cosa che mi ha chiesto, quando si fa il discorso, è stata: "Io non ti chiedo niente, solo di sorridere di più". E ha ragione.

Ti ha accettato. Nell'epoca delle relazioni disfunzionali, trovare qualcuno che ti accetti per come sei è oro. 

Ma ma è quella la chiave. Io e lei non litighiamo quasi mai, perché tanto tanto ce lo siamo detti. Lei non cambierà mai, io non cambierò mai, imporre il proprio pensiero all'altro, provare a plasmarlo, è tempo perso. Lo fai, io ci ho provato quando ero ragazzino, infatti litigavo sempre, ma a 40 anni non hai più voglia. E lei inaspettatamente essendo anche così giovane già ha questa maturità, capisce che l'altro si può accompagnare in un percorso, si può camminare a fianco, ma non puoi plasmare, sarebbe solo un atto egoistico.

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