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Tre Ciotole è un film sul valore della perdita, Michela Murgia voleva insegnarci a non rinunciare mai

Tre Ciotole, il film di Isabel Coixet tratto dal libro di Michela Murgia è un viaggio attraverso il valore della perdita: da quella affettiva a quella materiale. E a volte, perdere qualcosa, non è detto sia un male.
A cura di Ilaria Costabile
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Attorno a Tre Ciotole, il film tratto dall’omonimo libro di Michela Murgia, c’era un’attesa febbrile. Probabilmente perché si tratta di uno degli ultimi titoli della scrittrice sarda, in cui emerge in maniera potente il tema della malattia.

Protagonisti di questa trasposizione cinematografica sono Alba Rohrwacher ed Elio Germano, con un cast corale che si amalgama perfettamente ai due volti principali. La regista spagnola Isabel Coixet ha fatto una scelta ben precisa, ha voluto deostruire il libro di Murgia per prenderne solo l’essenziale e creare un racconto intimistico sul concetto di perdita, di morte, ma anche della vita stessa e di quello a cui solitamente tendiamo a dare importanza.

Sullo sfondo una Roma non inflazionata, che riemerge nei ricordi e nelle passeggiate in bicicletta di Marta, la protagonista.

Nel romanzo, la prima cosa che si scopre è la malattia di Marta, Murgia decide di dare al lettore questa informazione in apertura, cosa che invece la regista slitta a metà del film, mentre ciò che si consuma prima è una rottura interiore, una crepa d’amore difficile da sanare, tra Marta e Antonio. È lui a lasciarla, perché insofferente verso un qualcosa che sente non appartenergli più, sebbene non sia realmente così.

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Marta subisce una decisione che non avrebbe mai preso e contestualmente si chiude in se stessa, trovando sollievo, dopo un iniziale dolore, nel vomito che le sale alla gola ogniqualvolta lui le torna alla mente. Non si nutre Marta, lo fa con svogliatezza, con disattenzione, assemblando cibi senza sapore, mangia per riempirsi per poi svuotarsi poco dopo. Troverà salvezza solo usando tre ciotole, in cui consumerà ogni suo pasto. Sempre arruffata, con i capelli spettinati e legati sulla nuca, la sua vita è scandita dal tempo trascorso scuola dove insegna educazione fisica, dove un collega di filosofia prova a farle, in maniera elegante e un po’ sopra le righe, una corte delicata e gentile, fatta di chiacchierate, inviti mascherati e saluti fugaci nei corridoi.

Se la Marta di Alba Rohrwacher inizialmente sembra passiva, quasi amorfa -probabilmente è una scelta voluta- quasi scompare accanto ad un nervoso e sempre impeccabile Elio Germano; la sorella di lei, Elisa, interpretata da Silvia D'Amico è un personaggio la cui invadenza risulta quasi simpatica, è la nota che smorza la sofferenza. Ma a dare un tocco leggero e spensierato al racconto cinematografico è proprio il professore di filosofia, un Francesco Carril in punta di piedi, che conferma dopo la prova di Dieci Capodanni, di essere un attore di un’intensità meravigliosa, fatta di gesti e sguardi intensi.

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Un evento, però, cambierà il corso delle cose. Quando Marta scopre di essere malata e di avere un tumore al quarto stadio, con metastasi, cambia la sua vita, soprattutto cambia il modo in cui guarda sé stessa e il suo passato.

In una conversazione a tratti surreale sul lungotevere insieme ad Antonio, lei quasi lo ringrazia per averla lasciata: “Pensa se lo avessimo scoperto adesso, non avrei mai saputo se stavi con me perché mi ami o per pietà, per senso di colpa” gli dice parlando della malattia: “Io prima pensavo che la mia vita fosse tutto noi, ho scoperto che c’è qualcosa in più, non lo sapevo”. Ed è così che va in scena il paradosso di lasciare chi ha già lasciato.

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Tre ciotole è un film sul valore della perdita, che sia quella metaforica o fisica, e Isabel Coixet è bravissima a non rendere la malattia un qualcosa di morboso, è quasi un’ombra che non copre le persone, ma le osserva da lontano. È un film delicato, in cui l’amore viene indagato nel suo momento più difficile: la fine, quando c’è ancora dell’amore, ma non così potente da poter andare avanti, affiancato dal desiderio di lasciarsi andare al nuovo, seppur con paura. C’è un momento in cui Marta, circondata dalle sue studentesse dice: “Ama anche se hai paura che nessuno ti ami, prenditi cura delle persone anche se questo a volte ti farà soffrire”. Un invito a non rimandare e, come dirà a sua sorella, a non “pensare alle cose stupide”, perché la vita è altro, la vita vale la pena di essere vissuta sempre, soprattutto quando si ha la consapevolezza che, da un momento all’altro, potrebbe finire.

L’insegnamento di Michela Murgia è lì, alla fine del film, quando Marta si rende conto di essersi posta troppe domande superflue, di non “essersi mai piaciuta” come confiderà qualche frame prima davanti ad un bicchiere di vino. Marta di cui ormai si sente solo la voce, il suo corpo non c’è più, lascia che i suoi pensieri galleggino in un'atmosfera sospesa in cui la vita continua ad un passo diverso, quello di chi ha capisce che non c'è tempo per rinunciare ad essere chi si vuole davvero.

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Nata nel 1992, giornalista dal 2016. Ho sempre scritto di cultura e spettacolo spaziando dal teatro al cinema, alla televisione. Lavoro nell’area Spettacolo di Fanpage.it dal 2019.
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