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Perché dovete vedere L’odore della notte di Claudio Caligari, anche se sono passati 25 anni

Sono passati 25 anni dall’uscita de L’odore della notte di Claudio Caligari: il ritorno al cinema in versione restaurata è l’occasione per (ri)vederlo.
A cura di Gianmaria Tammaro
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A Claudio Caligari interessava la sostanza della vita, quel realismo che tiene insieme i momenti della giornata, che nonostante tutto li rende credibili, profondi, tridimensionali. Il silenzio condiviso, lo sguardo perso nel vuoto; la sofferenza nella fronte che si aggrotta e nelle mani che cercano un appiglio. I suoi film sono pezzi di verità: parlano di amicizia, di ultimi, di periferia. Definirli pasoliniani sarebbe riduttivo. Sono innanzitutto “caligariani”. E si vede.

In ogni scena, ogni frame e ogni inquadratura, c’è Caligari con la sua bellezza e forza: efficace, affilato, sincero. La macchina da presa era un’estensione dei suoi occhi, uno slancio per l’immaginazione; le cose succedevano in scena, letteralmente, e non dietro. Provare le battute e i movimenti era un modo per entrare nel personaggio, calarsi nell’istante e allenare il muscolo della verità. Da Amore tossico, dove tutto sembrava seguire un andamento spontaneo, a L’odore della notte, dove la finzione interveniva a gamba tesa e teneva in piedi l’intera struttura narrativa, con voice over e didascalie, fino a Non essere cattivo, che nel giro di pochissimo è stato in grado di diventare un cult e di avvicinare Caligari alle nuove generazioni: benvenuti, ecco quello che, fino a oggi, vi siete persi.

Tutti conoscono la fatica che questo regista ha fatto per girare i suoi film, e tutti sanno della sua amicizia con Valerio Mastandrea, diretto dallo stesso Caligari ne L’odore della notte. Ci piacciono le storie come queste, piene di romanticismo, di voglia di fare e di ostinazione. Ci dicono che non siamo soli nella fatica quotidiana; ci fanno sperare in un giorno migliore per tutti. Non vediamo, però, l’altra parte della medaglia: la sofferenza, le centinaia di pagine scritte e tenute nel cassetto; il silenzio dei produttori, l’assenza del grande cinema; l’ipocrisia di chi chiede una novità alla nostra industria ma che, davanti ad autori come Caligari, volta la testa dall’altra parte. In parte terrorizzato, in parte insensibile.

Quando uscì Amore tossico non fu facile. Divenne un caso, e diventare un caso, nell’Italia degli anni Ottanta, voleva dire finire sui giornali, nei forum, in discussioni politiche che perdevano di vista la visione dell’artista e l’ingegno dell’artigiano. Con L’odore della notte è andata diversamente – ma solo in parte. Arrivava in sala 25 anni fa e aveva un cast di attori professionisti: Mastandrea, Marco Giallini, Giorgio Tirabassi. Facevano i rapinatori, erano spietati, desiderosi di vivere al massimo o, come nel caso del personaggio di Tirabassi, di vivere e basta. Non c’era giustezza tra di loro. Compagni nei guai, estranei nella felicità.

Il Remo di Mastandrea era un poliziotto e nelle rapine a mano armata trovava una possibilità di riscatto: noi che non abbiamo avuto niente, ripete; noi che non siamo ricchi. Perché L’odore della notte parlava anche di questo, di lotta di classe, di poveri che arrancano e di una borghesia che oggi non esiste più e che allora sembrava vivere al di sopra delle sue possibilità, in un paradiso che semplicemente non era reale. La Roma bellissima di giorno si trasformava in una Roma terribile di notte. Cambiavano le facce, le luci, le ombre si allungavano. I tre rapinatori seguivano le persone a casa loro, in auto, e poi le derubavano. Volavano schiaffi, pugni, calci. A volte si sparava; altre volte si usava il calcio delle armi per assestare colpi.

L’odore della notte è pieno di scena memorabili, come quella in cui Little Tony canta e stona. In sottofondo, come un fruscio leggero, si sentiva la voce di Mastandrea che non si limitava a narrare i fatti, ma che, in un certo senso, li commentava con il pubblico, mettendosi dalla sua parte. Il finale è prevedibile. Eppure è il modo in cui Caligari ci arriva la cosa incredibile. Dà poco, pochissimo. Pare quasi sul punto di scoppiare, e invece sa sempre come rallentare, resistere, trattenere il fiato. È un gioco di tensione, L’odore della notte. È, volendo azzardare un paragone, il nostro Arancia meccanica. Ma più concreto, più realista, meno sognatore. La violenza, qui, ha conseguenze precise, riscontrabili nella quotidianità. La tortura è tutto il resto; è la vita che va, che torna e che minaccia di non tornare mai più. È la rabbia, l’insoddisfazione, sono i rimorsi.

Caligari era unico. Caligari era Caligari. I suoi attori, quelli che hanno lavorato con lui, continuano a sentirsi come una grande famiglia. Si cercano, si vogliono bene; hanno condiviso qualcosa che non può essere limitato alle etichette della critica. I film di Caligari erano vita ed erano, lo diciamo ancora una volta, verità. Guardarli non significa credere; guardarli significa accettare che al mondo c’erano registi come lui, così sinceri, puntuali, così assetati di storie, e ricordarsi che alla fine non hanno avuto le possibilità che meritavano. L’odore della notte, al cinema dal 20 novembre in versione restaurata, è il secondo di tre film, è grande come un oceano ed è il segno tangibile che qui, in questo paese, per qualche anno abbiamo avuto la fortuna di avere registi come Caligari. Uomini, prima che artisti. Artigiani prima che sognatori. Poeti, ma privi della retorica di una finzione edulcorata e piatta.

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