Perché la storia di Alfredino Rampi ha cambiato per sempre il modo di vivere il dolore in televisione

È l'11 giugno del 1981 quando arriva la notizia di un bambino di appena sei anni caduto in un pozzo artesiano a Vermicino, alle porte di Roma. Si chiama Alfredo Rampi, ma da lì a poco un intero Paese inizierà a chiamarlo semplicemente Alfredino. Il piccolo era in vacanza, in località Selvotta, nella seconda casa di famiglia. Era uscito per una passeggiata con il papà e alcuni amici. Ha chiesto di rientrare a casa da solo. Ma in quell'abitazione non ha più fatto ritorno.
Durante la passeggiata verso casa è caduto in un pozzo artesiano. È finito in una buca profonda 80 metri e con diametro di 30 centimetri, ma si era bloccato a 36 metri di profondità. Non ne è mai più uscito. È morto nella mattinata del 13 giugno, dopo quasi due interi giorni al buio. Mentre un bambino perdeva la vita per un incidente, intorno alla sua storia, tutto il modo di raccontare gli eventi in televisione è cambiato.
La notizia della caduta nel pozzo è stata divulgata verso le 2 dell'11 giugno, riportata dai telegiornali pubblici verso le ore 13. Da quel momento, l'Italia ha preso a cuore la storia del piccolo Alfredino. All'ora del telegiornale, le persone hanno iniziato a ritrovarsi davanti al televisore. Tutti volevano sapere quali fossero le sorti di quel bambino che, in appena qualche ora, era diventato un po' il figli di tutti e tutte.
Sul posto, ad arrivare per primi, sono stati i giornalisti di TeleRoma56, poi quelli della Rai. Seguivano ogni mossa. Dai tentativi di salvataggio e soccorso, fino agli errori commessi per tentare di riportare fuori dal pozzo il piccolo Alfredino.
Ad aumentare l'interesse e la notiziabilità hanno contribuito diversi fattori. Il fatto che il protagonista della tragedia fosse un bambino; l'accessibilità e la vicinanza con Roma, e il fatto che, come tante altre famiglie, il piccolo si trovasse in vacanza con i genitori dai nonni. È successo ad Alfredino, ma sarebbe potuto succedere a chiunque.
In breve tempo, tutti hanno iniziato a chiedersi come stesse il piccolo Alfredo. E più le ore passavano, più l'interesse e la preoccupazione aumentavano, più le persone, dalle loro case, cercavano risposte sulle condizioni del ragazzino.

Sul posto, prima ancora dei giornalisti, erano arrivati i soccorritori. Le immagini trasmesse in televisione parlavano di un'intera comunità stretta intorno al bambino. Sullo schermo una folla accerchia il pozzo al cui interno il piccolo sta lottando fra la vita e la morte. Sono persone sudate, sfinite dalla preoccupazione e dal timore di non riuscire a svolgere il loro compito. Ci sono macchinari che provano a raggiungere il bambino, ci sono volontari che provano a calarsi per tirarlo su, come Angelo Licheri che per anni ha sognato quei momenti di disperazione e impotenza. Ci sono i tentativi che, poi, si sono rivelati sbagliati. Ci sono le mani intorno alla buca. E c'è il buio in cui si trova Alfredino.
"Conducevo il telegiornale, l'inviato sul posto mi aveva detto che secondo il capo dei vigili del fuoco mancava poco per salvare Alfredino. Così abbiamo deciso di non chiudere il telegiornale alle 14. Poi è diventato sempre più difficile: se avessimo chiuso il collegamento proprio nel momento del salvataggio?". Queste le parole di Piero Badaloni che, forse, non sapeva che si sarebbe trovato a fare la storia. È stata la prima volta che la televisione italiana ha portato avanti una diretta così lunga: in totale è durata circa 18 ore.
"Mancava l'attrezzatura adatta, si surriscaldava: per raffreddarla abbiamo utilizzato anche i ventagli", ha ricordato ancora Badaloni. Mentre si superava il numero di ore di diretta mai effettuato, però, venivano superati anche dei limiti umani che hanno posto solide basi per il genere di televisione che conosciamo oggi.

La chiamano tv del dolore, quella in cui spettatori e spettatrici arrivano a provare un attaccamento morboso per la vicenda, generalmente di cronaca, che viene raccontata sul piccolo schermo. Da quella terribile giornata del 1981, gli esempi del genere sono numerosi: dal caso della morte di Yara Gambirasio a quella di Sarah Scazzi, ad Avetrana o, ancora, il naufragio della Costa Concordia. Il pubblico è diventato affamato di dettagli, talvolta anche macabri. La curiosità patologica di chi guarda viene soddisfatta a scapito della privacy, del dolore delle famiglie che, anche in momenti così delicati, sembra restare in secondo piano.
Il pubblico si arroga il diritto di essere aggiornato su aspetti che esulano da quelli relativi alla semplice notizia. Un voyeurismo che, con gli anni sempre di più, continua ad essere alimentato dal genere di servizi trasmessi. E che, quando non accade, porta gli spettatori stessi a spostarsi in un turismo dell'orrore le cui mete sono dettate soltanto dagli scenari dei casi di cronaca e dal dolore di qualcun altro. A Vermicino in quei giorni, dopo l'arrivo del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, rimasto per un'intera notte in attesa di quella notizia che non è mai arrivata, si stima siano arrivate almeno 10mila persone.
Dopo gli ultimi tentativi di salvataggio da parte di alcune persone che si trovavano lì, è arrivata la notizia della morte di Alfredino. La madre del piccolo ha provato a chiamarlo più volte. Non ha ricevuto risposta. E lo stetoscopio non ha individuato nessun battito cardiaco. A confermare ciò che tutti speravano non sarebbe mai accaduto, ancora una volta, una una telecamera della Rai che, calata nel pozzo, ha inquadratola sagoma immobile del bambino.
"Abbiamo trasmesso il dialogo fra Alfredino e sua mamma – ha continuato Badaloni facendo riferimento alle battute che si erano scambiati i due qualche ora prima – Non avremmo dovuto mandarlo in onda". E quel momento, ha segnato il punto di non ritorno.