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Le mani della ‘ndrangheta su Roma: così i clan riciclano i soldi sporchi nei locali della capitale

Nel corso dell’udienza del processo Propaggine che si è tenuta il 6 novembre a Piazzale Clodio, il pubblico ministero Giovanni Musarò ha ricostruito il meccanismo di riciclaggio nei locali attuati dal clan Alvaro. E ha puntato il dito anche sulle coperture di cui avrebbero goduto da parte delle banche.
A cura di Redazione Roma
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Di Gaetano De Monte

A Roma, si dice, c'è posto per tutti: camorra, ‘ndrangheta, mafia autoctona ed estera, oltre ovviamente ai gruppi della criminalità organizzata della capitale. Una città così grande, dove i macrosistemi criminali possono operare senza farsi le guerre. Che la ‘ndrangheta da anni abbia messo radici nella città eterna è cosa risaputa. Ma c'è un aspetto, che va oltre lo spaccio di droga e le estorsioni, che riguarda quello del riciclo di denaro sporco. E dove vanno questi soldi? In attività commerciali, create a hoc per garantire la sopravvivenza delle organizzazioni.

Sono 43 in tutto le persone che nel 2022 sono finite in carcere nell'ambito dell'inchiesta conosciuta come ‘ndrangheta capitale'. Tra questi spiccano i membri del clan Alvaro, che si sarebbero serviti anche di funzionari di banca compiacenti che non avrebbero compiuto gli accertamenti necessari su quei soldi.

C’è una mail del 4 novembre del 2020 agli atti del processo Propaggine che si sta svolgendo nel tribunale di Roma e che vede tra gli imputati gli esponenti della famiglia calabrese degli Alvaro che racconta molto di come funziona il meccanismo di riciclaggio nelle attività commerciali della Capitale. Vincenzo Alvaro, il capostipite del clan, scrive a Fabio Marsili, direttore della filiale di via Baldovinetti della Banca Popolare di Milano, sollecitando la chiusura del conto corrente intestato a una società, Zio Melo Srl che produceva pane, pasta, prodotti artigianali made in Calabria. Ma, secondo le visure camerali, la società in quel momento era intestata a un'altra persona e, nella girandola di acquisizioni e passaggi di proprietà che la ‘Zio Melo‘ aveva avuto negli ultimi anni, il nome di Alvaro, classe 1964, non compariva mai. E allora, si è chiesto il Pubblico Ministero della procura di Roma, Giovanni Musarò, nell’udienza che si è svolta giovedì 6 ottobre all’interno dell’Aula Occorsio: "Perché un direttore di banca riserva un trattamento di questo tipo a una persona? Perché Marsili non ha fatto la così detta adeguata verifica del cliente ai sensi della normativa anti riciclaggio?". E questa è la prima anomalia della vicenda, secondo quanto ha ricostruito in aula il Pubblico Ministero. Questo, infatti, è soltanto uno degli episodi che sono contestati dalla procura di Roma al direttore della banca, oggi imputato per favoreggiamento nel processo alla cosca degli Alvaro, con l’aggravante di aver agevolato un’organizzazione di tipo mafioso.

C’è poi una seconda anomalia che è riscontrabile negli atti: Fabio Marsili, che aveva conosciuto il boss Vincenzo Alvaro appena un anno prima, era consapevole – secondo la procura – delle numerose attività in diversi settori merceologici dalla panificazione alla ristorazione in cui quest’ultimo aveva interessi, nonostante non figurasse ufficialmente in nessuna delle visure camerali delle società in questione: Zio Melo Srl, Cala Roma Srl, Station Food, che erano tutte clienti, avendo conti correnti accesi nella sua banca. "E quindi Marsili avrebbe dovuto fare le opportune verifiche e invece non l’ha fatto", è ancora la contestazione del magistrato Musarò. E poi c’è dunque una terza anomalia che riguarda proprio l’apertura della società Station Food che costituisce per la procura la prova regina che Marsili era al corrente del ruolo rivestito da Alvaro nelle società di cui era il dominus, ma quasi mai l’intestatario.

Circostanze, queste, confermate durante un’altra udienza dello stesso processo dal tenente colonnello Sergio Bovio della Direzione Investigativa Antimafia di Roma, così: "per la Station Food e le altre società nominate, per la Bpm di Milano l’interlocutore era Vincenzo Alvaro e soltanto laddove questi non fosse disponibile, ci si rivolgeva agli amministratori unici che risultavano dalle visure".

Ma c’è di più. Il rapporto confidenziale e di fiducia intrattenuto tra uno degli imputati del processo al clan Alvaro, Marco Pomponio, e il direttore della banca, Fabio Marsili, emergerebbe da un’intercettazione telefonica del novembre del 2017 quando Pomponio rivela alla moglie di aver parlato con il direttore anche di un altro progetto in piedi tra lui ed Alvaro, quello di una risto pescheria. E ancora, anche da un’altra intercettazione telefonica agli atti tra Pomponio e Pasquale Valente detto ‘cagnolino'. "Dice il direttore che vuole entrare in società con noi nel giro dei locali, almeno per il 25%". Anche se sul punto la difesa dell’uomo ha contestato la mancata identificazione. In tutti i casi – secondo la procura – Fabio Marsili sarebbe stato a conoscenza del fatto che Vincenzo Alvaro era il punto di riferimento di una serie di persone che rilevavano locali nella Capitale attraverso fondi illeciti per poi intestare fittiziamente le loro quote a prestanomi che facevano riferimento all’ndrangheta. E, addirittura, avrebbe rivelato a Pasquale Valente l’esistenza di una grossa indagine nei suoi confronti.

A ogni modo, gli imputati alla sbarra nel processo Propaggine sono decine, e la sentenza per chi non ha scelto il rito abbreviato dovrebbe arrivare per la prossima primavera. Ma quello che emerge dall'inchiesta che tre anni fa portò a scoprire l’esistenza di una locale autonoma di ‘ndrangheta nella Capitale, è l’inquinamento complessivo dell’economia cittadina da parte di Vincenzo Alvaro e dei suoi prestanome. "La Dia ha potuto seguire, mediante pedinamenti, anche informatici e con sistemi video, intercettazioni di diverso tipo, accertamenti bancari e patrimoniali, uno scenario che si aggiornava". "Vincenzo Alvaro contattava diversi broker finanziari, i quali, consapevoli delle difficoltà dello stesso a potersi presentare personalmente presso le banche a chiedere credito, si facevano accompagnare dai prestanomi che poi riportavano a lui le decisioni da prendere", si legge negli atti. I broker ne subivano gli ordini, ma anche i rimproveri, quando le pratiche di finanziamento non andavano a buon termine perché le aziende erano state segnalate o avevano un rischio di credito altissimo consulenti, broker, professionisti, indagati e non, erano il cavallo di troia che permettevano alla locale di ‘ndrangheta di inquinare la vita economica della Capitale. Alvaro e suo cognato Giovanni Palamara erano i “pezzi grossi, invece, come li ha definiti il loro commercialista in una intercettazione ambientale "per sottolinearne la loro posizione di assoluta valenza in seno alle società per le quali lui curava gli aspetti contabili e fiscali", si legge ancora negli atti dell’Antimafia capitolina.

"Quanto hai, hai un sacco di soldi", diceva il commercialista, intercettato, ad Alvaro. E quest’ultimo rispondeva: "Ma che cazzo ne so". E i detective annotano: "giustificava l’entità dell’importo indicato nel documento in mano al commercialista, anche con la sistematica emissione a vuoto di scontrini fiscali, per 500,00 euro al giorno, senza alcuna cessione di beni o prestazione di servizi".

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