Detenuto torturato a Regina Coeli: “Unghie staccate, mi hanno quasi cavato l’occhio: in due giorni mai visto una divisa”

“Ho ancora gli incubi. Nessuno si è accorto che in quella cella volevano ammazzarmi”. I demoni tornano ogni notte come un’eco: le ombre di quegli uomini che lo hanno seviziato per due giorni.
Simone (nome di fantasia, ndr) è un uomo di quarant'anni finito in carcere a Regina Coeli per un reato minore. Quello che avrebbe dovuto essere un passaggio rapido – una misura cautelare, qualche giorno di attesa – si è trasformato in un inferno dentro le mura del carcere di Regina Coeli.
Simone è infatti stato torturato per due giorni da altri detenuti che si sono definiti senza mezzi termini ‘i padroni del carcere'. Botte, soprusi, umiliazioni: tutto per essersi rifiutato di nascondere un cellulare. Lo hanno picchiato in uno spazio angusto, legato a un letto, gli hanno strappato un’unghia e sfregiato l’occhio. Dopo la denuncia, nella sua stessa sezione gli agenti hanno sequestrato telefoni, droga e armi rudimentali.
In quei due giorni Simone non è stato solo torturato: i suoi aguzzini hanno chiamato i suoi affetti per chiedere denaro. Non era solo violenza fisica: era un’estorsione, un ricatto gestito con tranquillità all’interno di un carcere. Tutto questo, racconta la vittima, sotto lo sguardo assente dello Stato che avrebbe dovuto proteggerlo. Sembra assurdo, ma in due giorni pare che nessun agente della polizia penitenziaria si sia accorto di quanto stava avvenendo all'interno di quella cella.
Simone ha deciso di raccontare il suo calvario, in maniera anonima, a Fanpage.it: il dolore, la paura, la rabbia e il senso di impotenza durante quelle ore infernali in cella. “Ero in un carcere, nelle mani dello Stato e nessuno si è accorto di quello che stava accadendo. Ho deciso di denunciare, insieme all’avvocato penalista Marco Valerio Verni, perché nessun detenuto soffra quello che ho dovuto subire io”. E, ad agosto, racconta agli investigatori della presenza di una pistola.
Lei è entrato nel carcere di Regina Coeli i primi giorni di luglio. Il portone si è chiuso dietro alle sue spalle. Quali sono stati i suoi primi pensieri?
Non sarei dovuto restare molto tempo, sono entrato in misura cautelare, e mi aspettavo di essere nella settima sezione, quella di transito.
Invece dove è finito?
Nella terza sezione, quella per i detenuti comuni. Sembrava un film: gente che sbatteva alle porte, grida, caos. Il clima era questo, poi è arrivato quel dannato venerdì.
Cosa è successo?
Tre persone mi hanno raggiunto in cella per chiedermi di nascondere un cellulare nell’armadietto. Ero contrario.
Rispettoso delle regole?
Sarei rimasto poco e non volevo mettermi in queste situazioni. Quando gli ho detto che non l’avrei fatto la loro risposta è stata: “Questa non è una domanda. Qui comandiamo noi”. Poi è iniziato il pestaggio.
Ma in cella?
Sì. Ero chiuso con loro in due metri quadrati e mi hanno rifilato un pugno dopo l’altro. Ricordo bene la voce di uno dei tre uomini. Aveva rovistato nel mio cassetto dove conservavo un biglietto con i numeri dei miei cari. Hanno preso un telefono e li hanno chiamati per chiedere dei soldi.
Chi hanno contattato?
Mia madre. E pensare che lei credeva che fossi al sicuro. Ero in un carcere, affidato allo Stato, di certo non poteva credere che qualcuno stesse cercando di estorcerle dei soldi da lì dentro.
Si è rifiutata?
Certo. Pensava a un raggiro. A quel punto hanno chiamato una mia amica e lei ha ceduto. Le hanno inviato l’iban di una PostePay da ricaricare e lei ha mandato centocinquanta euro. Ma ai miei aguzzini non è bastato, così hanno rilanciato chiedendo altri soldi. Hanno ricevuto un no come risposta e hanno iniziato a torturarmi.
Può ripercorrere con noi quei momenti?
Ho ancora gli incubi, quei demoni mi svegliano la notte. Sono stato legato al letto, mi hanno staccato un’unghia e affossato l’occhio destro. Vedo ancora delle ombre, la vista non si è ancora ripresa. Poi mi hanno ferito dietro le gambe, credo con un coltellino di fortuna, e il mio letto si è impregnato di sangue. Questo inferno è durato due giorni. Due giorni in cui ho sentito che lo Stato mi aveva abbandonato in una cella con i miei aguzzini.
Non è intervenuto nessuno?
No. Nessuno. In quei giorni ho sperato di vedere una divisa, un agente che venisse a fare la conta, un’infermiera che passasse a portare la tachipirina. Ma così non è stato. Mi hanno lasciato lì da solo a subire il primo pestaggio, il secondo, il terzo, il quarto.
Cosa le ha dato la forza di resistere?
Ciò che c’era fuori, dovevo salvarmi, volevo vivere.
Come è riuscito a liberarsi?
Sabato hanno cercato di sedarmi con una pastiglia, ma non l’ho ingoiata e ho finto di dormire per tutta la notte, nonostante il dolore lancinante. Quella notte hanno discusso sulla fine che avrei dovuto fare, parlavano di come inscenare il mio suicidio: soffocandomi con un cuscino o tagliandomi le vene. E ci hanno anche provato.
Poi uno di loro ha avuto il dubbio che il finto suicidio non funzionasse.
Un rimorso di coscienza?
No, questioni logistiche. Il più scettico si è chiesto: “Chi s’accolla il morto?”. Un altro ha risposto che poteva farlo lui perché aveva sedici anni da scontare lì dentro e così hanno aspettato tutta la notte.
Domenica mattina qualcosa è cambiato?
Ho sentito un giro di chiavi e sono riuscito a trovare la forza per ribellarmi. Fisicamente ero esausto, ma ho capito che quella era l’unica possibilità di salvezza. Ero sulla terza brandina in alto del letto a castello, mi sono lanciato giù, ho visto un agente penitenziario, ma sono scappato via. Ho raggiunto l’infermeria, l’unico posto dove pensavo di essere al sicuro.
L’agente l’ha rincorsa?
Non credo. L’ho sentito chiudere la porta della cella.
A quel punto è stato portato al pronto soccorso?
All’ospedale sono stato trasferito solo due giorni dopo e i medici mi hanno dato venticinque giorni di prognosi.
Lei è stato punito per essersi rifiutato di nascondere un cellulare. E dopo la sua denuncia, a Regina Coeli nella sezione in cui lei era recluso. hanno sequestrato venti telefoni, droga e armi rudimentali. Come funziona il traffico?
Io avrò contato dodici telefoni, poi la droga, le armi con cui mi hanno ferito. E i detenuti parlavano di una pistola presente a Rebibbia, che forse sarebbe potuta arrivare da noi. Tutto questo aveva un prezzo: lo smartphone costava millecinquecento euro.
Ci si parlava da un carcere all’altro?
C’era uno scambio continuo di informazioni con i cellulari.
Come avveniva?
Credo che i telefoni, così come la droga, venissero lanciati in cortile durante l’ora d’aria da qualcuno al di là del muro. In quel momento nessuno controlla, in fondo io sono rimasto bloccato in stanza per quarantotto ore e nessuno si è mai accorto della mia assenza.
Ma i poliziotti non fanno l’appello?
Ad ogni turno-mattina, pomeriggio, notte- sono sei conte al giorno.
E nessuno si è mai accorto che lei non c’era?
Ero legato al letto, ma avrei avuto per ben quattordici volte la possibilità di incrociare un agente. Purtroppo nella mia cella non è mai venuto nessuno. Si limitavano a passare nel corridoio e si accontentavano dei detenuti che rispondevano “Qui tutto ok”, senza nessun controllo visivo. Avrei potuto essere evaso e invece ero sanguinante, immobilizzato sul letto.
Ha ancora fiducia nello Stato?
Sì, voglio fidarmi. Credo che ci sia una parte che non abbassa la testa davanti a ingiustizie simili. E sa perché lo faccio?
Mi dica.
Perché non voglio che qualcun altro debba subire quello che ho subito io, perché un Paese si valuta anche dalle condizioni carcerarie e io voglio credere in un’Italia che a un certo punto deciderà di pensare ai detenuti. La criminalità non può comandare all’interno di un istituto penitenziaria. Nessuno può mettersi al di sopra della legge nel luogo in cui più di tutti lo Stato è chiamato a far vedere la sua presenza.