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Reddito di cittadinanza solo agli italiani, perché Di Maio non può farlo

Luigi Di Maio e il governo vogliono introdurre il reddito di cittadinanza, ma riservandolo solo ai cittadini italiani. La proposta dell’esecutivo, in realtà, non si può applicare: la giurisprudenza, le leggi italiane ed europee e molte sentenze passate dimostrano che i cittadini stranieri non possono essere esclusi dall’erogazione delle prestazioni sociali.
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A cura di Stefano Rizzuti
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Reddito di cittadinanza solo per i cittadini italiani. Questa è l’ipotesi che il governo vuole mettere in campo, in caso di realizzazione della proposta del MoVimento 5 Stelle, confermata anche oggi dal vicepresidente del Consiglio, Luigi Di Maio. Una soluzione che necessiterebbe di molte meno risorse rispetto a quelle inizialmente previste (si parlava di 17 miliardi) per il reddito di cittadinanza, in quanto un terzo dei cittadini in condizione di povertà assoluta è straniero. Ma oggi Tiziano Treu, presidente del Cnel ed ex ministro del Lavoro, tuona contro questa proposta del governo: “È inaccettabile, secondo il diritto europeo, che una prestazione assistenziale come il reddito di cittadinanza possa essere data soglio agli italiani”. Treu ha ragione, la giurisprudenza, italiana e comunitaria, è dalla sua parte: il reddito di cittadinanza, così come qualsiasi altra prestazione sociale, non può essere erogato solamente a cittadini italiani, escludendo quelli di diversa nazionalità.

La Corte di Giustizia dell’Ue si è pronunciata più volte su questioni simili, decidendo a favore dell’estensione della prestazione sociale quanto meno agli stranieri con regolare permesso di lungo soggiorno. Ancora meno dubbi per quanto riguarda i cittadini comunitari, che non possono essere in alcun modo esclusi dall’erogazione della misura. A confermare questa valutazione c’è anche la Corte Costituzionale italiana, che più volte si è espressa stabilendo che le prestazioni sociali debbano valere per tutti allo stesso modo, italiani o stranieri. Da una parte c’è quindi la giurisprudenza, secondo cui non si possono escludere né i cittadini comunitari né gli immigrati con i documenti in regola. Dall’altra c’è anche un recente esempio, simile al reddito di cittadinanza, ovvero il ReI (Reddito d’inclusione) che testimonia come l’assegno riguardi anche il cittadino straniero, in quel caso con l’unico criterio che sia residente in Italia da almeno due anni.

Il caso Martinez

Esemplificativo, per quanto riguarda l’Italia, è il caso Martinez. La Corte di Giustizia dell’Ue ha dato ragione a Kerly Del Rosario Martinez Silva, donna di origine straniera che ha presentato ricorso al tribunale di Genova contro l’Inps perché le era stato negato l’accesso all’assegno per nuclei familiari con tre figli. La sua domanda era stata respinta nonostante avesse tutti i requisiti e un permesso di soggiorno di durata superiore ai sei mesi. Il tribunale di Genova ha respinto il suo ricorso, ma l’Appello ha deciso di rinviare la questione alla Corte Ue. Che ha deciso che i cittadini non appartenenti all’Unione ma con “permessi lavorativi, devono beneficare della parità di trattamento” e devono quindi ricevere la prestazione sociale, considerata una prestazione di sicurezza sociale.

La legge italiana e la legge europea

Anche la legge italiana in materia parla chiaro. Già il testo unico sull’immigrazione del 1998 prevedeva che il migrante dovesse godere “dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano”. A rafforzare questa ipotesi c’è anche la legge n. 328 del 2000, con la quale si prevede che “hanno diritto di usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato di interventi e servizi sociali i cittadini italiani e, nel rispetto degli accordi internazionali, anche i cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea e i loro familiari, nonché gli stranieri”. Più restrittiva, invece, una successiva legge dello stesso anno, la n. 388: in questo caso si prevede che l’assegno sociale debba sì essere concesso anche agli stranieri, ma solo se sono “titolari di carta di soggiorno”. In particolare, per molte prestazioni si stabilisce che sia necessario avere un permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno. Questo comma della legge è stato poi ritenuto in parte illegittimo dalla Corte Costituzionale che ha obiettato su alcuni punti, decidendo così di valutare prestazione per prestazione il da farsi.

La certezza è che non è possibile, sulla base della legge, riservare alcune prestazioni solamente ai cittadini italiani. Lo dimostra anche un altro caso, quello riguardante il bonus bebè erogato a Brescia, nel 2012, solamente ai cittadini italiani. Il giudice ha quindi deciso di estenderlo a tutti i residenti, anche quelli stranieri. Sulla materia si è espressa anche l’Ue, con una direttiva del 2012 che prevede che chiunque abbia un permesso di soggiorno che consenta di lavorare abbia diritto alle prestazioni sociali: dai bonus bebè agli assegni sociali. A confermare in Italia questa tendenza ci sono tante sentenze, come quella del 2015 del tribunale di Santa Maria Capua Vetere. I giudici stabilirono, in quel caso, che i cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti con permesso di non breve periodo, debbano godere dello stesso trattamento dei cittadini italiani per le prestazioni sociali erogate dall’Inps. In quel caso si trattava dell’assegno per il nucleo familiare.

La Corte Costituzionale e il Reddito di Inclusione

Sono decine le sentenze della Corte Costituzionale (qui raccolte) sul tema. In quasi tutti i casi – salvo rarissime e molto particolari eccezioni – i giudici hanno stabilito che è illegittimo subordinare l’erogazione delle prestazioni sociali al possesso del permesso di soggiorno. In sostanza, non c’è nessuna possibilità che misure di questo genere vengano applicate solo a cittadini italiani. Infine, una parentesi sul Reddito di Inclusione, lo strumento di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale introdotto nella scorsa legislatura ed effettivo a partire dal gennaio del 2018. In quel caso sono stati stabiliti alcuni criteri per l’accesso alla misura, primo su tutti la residenza sul territorio nazionale da almeno due anni al momento della presentazione della domanda. Altro criterio riguarda la cittadinanza del richiedente che può essere italiana, comunitaria o si può anche trattare di un familiare di un cittadino dell’Ue o del titolare di un permesso di lungo soggiorno. Inoltre, la misura è stata successivamente estesa anche a chi gode di protezione internazionale e agli apolidi. In conclusione, il governo dovrà tenere conto sia della giurisprudenza che delle norme ad oggi in vigore prima di proseguire sulla strada del reddito di cittadinanza per soli cittadini italiani. Il rischio di illegittimità e di centinaia, se non migliaia di ricorsi, è dietro l’angolo.

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