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Putin fa la voce grossa, ma South Stream non sarà rimpianto

Vladimir Putin minaccia: dato che la Ue non toglie le sanzioni il progetto South Stream è morto e la Russia venderà il suo gas alla Turchia. In realtà nè alla Russia nè all’Europa (Italia compresa) dispiace troppo che sia finita così…
A cura di Luca Spoldi
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Vladimir Putin prova a mostrare i muscoli e minaccia: visto che l’Europa non intende rimuovere le sue sanzioni il progetto South Stream è morto e Mosca cercherà di vendere il suo gas alla Turchia concedendo sconti e studiando un nuovo gasdotto alternativo a quello che dal 2007 Gazprom (socia al 50%) sta provando a realizzare con Eni (20%), Edf (15%) e Basf (15%). Se la “sparata” mediatica doveva servire a spaventare i mercati e i governi europei, per ora l’effetto è mancato ed anzi i listini europei stamane rimbalzano dopo il calo di ieri.

A preoccupare gli investitori, semmai, è il fatto che il calo del prezzo del petrolio (che come spiegato è la vera pistola alla tempia dello “zar” russo, dato che il petrolio di Mosca viene estratto ad un costo di oltre 100 dollari al barile) se da una parte offre un insperato supporto alla debole crescita europea (ed in particolare a quella italiana, vista la già ricordata dipendenza del nostro paese dalle importazioni energetiche), dall’altra proprio per questo riduce gli spazi di manovra di Mario Draghi in seno alla Bce in vista di un lancio effettivo di quel piano di quantitative easing (acquisti di titoli di stato sul mercato) che lo stesso Draghi annuncia da mesi ma che finora non si è ancora concretizzato.

In realtà, commenta qualche operatore, Putin ha fatto un favore ai governi europei (involontariamente?). Da una parte, infatti, Berlino considera una priorità strategica ottenere l’indipendenza energetica dell’Europa, sia in senso geopolitico, tramite una diversificazione delle fonti di approvvigionamento extraeuropee, sia tecnologico, col sostegno allo sviluppo di energie rinnovabili (esclusa quella atomica almeno per ora, visto che dopo l’incidente di Fukushima sono già stati chiusi gli otto impianti nucleari più vecchi esistenti in Germania e i rimanenti saranno chiusi entro il 2022), che Angela Merkel vuole salgano al 35% dell’energia generata in Germania entro il 2035 e all’80% entro il 2050.

La determinazione tedesca è chiara e le aziende si adeguano: e.On scorporerà il prossimo anno i suoi impianti a combustibili fossili per concentrarsi sullo sviluppo delle rinnovabili e sul redditizio mercato della distribuzione alle utenze domestiche, Vattenfall (controllata dallo stato svedese) ha già annunciato di voler uscire dal mercato tedesco delle centrali a carbone per concentrarsi sulle rinnovabili, Energie Baden-Wuerttemberg (Enbw) ha già ceduto lo scorso anno asset per 3 miliardi di euro per concentrarsi a sua volta sulle rinnovabili, mentre solo Rwe resta per ora arroccata in difesa dei suoi impianti a lignite, da cui dipende oltre metà della sua capacità produttiva.

D’altra parte la Germania e quindi l’Europa vogliono anche riuscire a portare l’Ucraina nella sfera d’influenza occidentale e se non sono intenzionate a fornire alcun tipo di assistenza militare, di fatto già supportano finanziariamente Kiev, come testimonia l’accordo sul gas da 4,6 miliardi di dollari siglato tra Ucraina e Ue lo scorso ottobre che consentirà a Kiev a sua volta di saldare i propri debiti con Mosca. In questo modo lo stesso Vladimir Putin eviterà di dover concretamente dare seguito alla minaccia di ritorsioni in tema di vendita di gas all’Europa e concentrarsi sullo sviluppo di nuove intese con Cina e Turchia, senza peraltro veder svanire del tutto la possibilità che nel “Corridoio Sud” sul cui sviluppo punta ora la Ue (e l'italiana Eni) possa passare anche il gas russo.

Insomma: al di là dei toni aggressivi di Putin, lo stop a South Stream non dovrebbe far sorgere molti rimpianti, neppure in Europa e in Italia in particolare. Del rsto sono ormai lontani i tempi in cui tra grandi strette di mani e pacche sulle spalle lo stesso Putin e Silvio Berlusconi si facevano fotografare alla firma del memorandum d’intesa siglato dall’ex numero uno del cane a sei zampe, Paolo Scaroni, e dal suo omologo in Gazprom, Alexei Miller per un progetto il cui costo è lievitato a dismisura via via che si allungavano i tempi per la sua realizzazione.

L’attuale amministratore delegato del colosso petrolifero italiano, Claudio Descalzi, nominato dal governo Renzi al vertice di Eni lo scorso aprile, ha anzi già messo le mani avanti un mese fa spiegando, nel corso della sua audizione davanti alla Commissione industria e bilancio del Senato, che il cane a sei zampe avrebbe continuato “a impegnarsi sul South Stream se l’investimento sarà di 600 milioni, altrimenti valuterà l’uscita dal progetto, che prevede il 70% dei fondi a debito e il 30% equity” ribadendo che in ogni caso Eni non avrebbe mai messo 2,4 miliardi di euro “perché i conti sarebbero un po’ in pericolo”.

Tra l’altro ad Eni l’abbandono del progetto non dovrebbe costare alcuna penale perché i limiti posti ad aziende e banche russe impedirebbero il finanziamento per il 70% dell’opera a debito che per di più rischia di non rispettare neppure la normativa Ue che impone che chi produce gas (Gazprom) non possa controllare anche il business del suo trasporto (per cui la società russa dovrebbe far spazio a nuovi soci, cosa in questo momento altamente improbabile se non impossibile).Tutti soddisfatti, dunque, di una separazione che di fatto è consensuale?

Non proprio: a Piazza Affari il titolo Saipem (subholding di Eni nel settore della costruzione e manutenzione di infrastrutture al servizio dell’industria petrolifera, controllata al 42,9%) che da South Stream aveva ricevuto commesse per 2,4 miliardi di euro continua a perdere quota e stamane oscilla sui 10,25-10,30 euro per azione, contro i 13,40-13,45 euro toccati a metà novembre, con gli analisti di Ubs che ne consigliano la vendita visto che “è difficile stabilire l’impatto finanziario su Saipem” dello stop al progetto, non essendo chiaro come e in che misura potrebbero essere applicate le clausole contrattuali siglate a protezione del gruppo italiano, specie se la cancellazione del progetto dovesse “essere considerata al di fuori del controllo di Gazprom”. L’impressione è tuttvia che più che i problemi contingenti legati a South Stream pesi la prospettiva di un prolungato ribasso delle quotazioni petrolifere.

In questo caso, infatti, lo sviluppo di nuovi progetti potrebbe slittare nel tempo, penalizzando così il portafoglio ordini della società, che a fine settembre  ammontava a 22,6 miliardi di dollari, una porzione rilevante dei quali, almeno fino a tutto il prossimo anno, è rappresentata da contratti a bassa marginalità, ossia poco redditizi. Per questo il management di Saipem sta provando da mesi a rifocalizzare l’attività della compagnia su contratti più redditizi, ma una fase di prolungata compressione dei prezzi del greggio non facilita certo questo tentativo, facendo anzi temere un incremento della competizione da parte dei principali concorrenti mondiali.

Lo scenario resta poco favorevole a Saipem, purtroppo. Proprio oggi, ad esempio, Societe Generale ha tagliato le proprie stime ed ora prevede che il petrolio Wti texano registri una quotazione media di soli 65 dollari al barile sia nel 2015 sia nel 2016 (rispettivamente 17 e 16 dollari meno delle precedenti previsioni) e il Brent del Mare del Nord resti in entrambi gli anni attorno ai 70 dollari al barile (con un taglio di ben 20 dollari in entrambi gli anni rispetto alla stime precedenti). E’ questo il vero problema che pesa sul gruppo italiano, non meno che sulla Russia (il cui Pil dipende per un 40% circa dalle esportazioni di gas e petrolio).

Il boccino in questo caso non è in mano a Vladimir Putin, o a Matteo Renzi, visto che dipende da due fattori. Anzitutto dalla sovraproduzione petrolifera attuale, frutto della politica dell’Opec e della crescita della produzione di “shale oil” statunitense (destinata a rallentare solo fra un paio d’anni, allentando in parte le pressioni ribassiste sulle quotazioni del Wti), poi dall’incertezza in tema di andamento della domanda mondiale, che molti esperti vedono destinata a riaccelerare non prima del 2017, visto che la crescita in Cina e sui principali mercati emergenti continua a rallentare, che negli Usa la ripresa non si sta traducendo in maggiori consumi nella misura attesa e che l’Europa (specie del Sud) resta in mezzo al guado.

Morale: solo nel 2016 secondo gli esperti francesi il Brent potrebbe risalire sui 72 dollari al barile, in media, per poi tornare a 74 dollari nel 2017 e a 75 dollari nel 2018, mentre il Wti dovrebbe a sua volta risalire rispettivamente a 67, 69 e 70 dollari al barile, in media, in ciascuno dei tre anni. Quotazioni molto basse per un periodo molto esteso: è questo il motivo per cui l’abbandono dell’impegnativo (anche in termini finanziari, oltre che strategici) progetto South Stream potrà causare qualche rimpianto per l’occasione perduta, ma pochi timori per i potenziali danni collaterali.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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