
Sulla barca di TOM – Tutti gli Occhi sul Mediterraneo, direzione Gaza con la Global Sumud Flotilla, non sono (ovviamente) solo. Qui viaggiano storie di naviganti e attivisti, storie di persone che ricoprono un ruolo nella società civile e politica e hanno deciso di imbarcarsi per portare quelle storie fino a Gaza.
Ho intervistato due delle persone con le quali, in questi giorni di navigazione, sto condividendo ogni piccolo spazio della barca, scambiandomi i turni di ogni azione quotidiana: preparare i pasti, pulire i piatti e fare i secondi al timone di navigazione di notte.
La prima persona con cui parlo è Paolo Romano, consigliere regionale in Lombardia con il Partito Democratico; inizio con lui per questione di età: 29 anni.
La seconda persona sarà invece Yassine Lafram, presidente nazionale dell'UCOII – Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia, originario di Casablanca, amico del Cardinale Matteo Maria Zuppi, con cui condivide anche la città di residenza: Bologna.
Paolo Romano, prima domanda: sei davvero giovane?
Ho 29 anni, in un’Italia normale dovrei essere un adulto, in quest’Italia invece sono ancora considerato giovane.
A quale età hai iniziato a interessarti delle questioni intorno a te?
Avevo 15 anni e il mio liceo aveva dei problemi, come alcuni bagni vecchi e non sempre agibili. Così con alcuni amici fondammo una lista e mi candidai.
Perché ti sei imbarcato con la Global Sumud Flotilla?
Perché era l’ultima cosa rimasta da fare. Abbiamo provato prima nelle istituzioni e in piazza, poi ho sentito che non era rimasto altro che questo, per provare fino in fondo a fermare il genocidio a Gaza e aprire un corridoio umanitario sicuro.
Ti sei mai sentito “tradito? da qualcuno?
Certo. Sono cresciuto con il racconto che l’Occidente rappresentava un faro di speranza e diritti, e poi la mia generazione è stata tradita. Avevo anche io l’idea, che mi era stata trasmessa, che sui valori umani nessuno sarebbe rimasto a guardare, che non avremmo mai permesso determinate azioni, e poi abbiamo scoperto che non era vero niente. Perché certe atrocità, anche quando non le facciamo direttamente, come Paese le stiamo permettendo. Stiamo lasciando che accadano. Siamo spettatori e complici.
Oggi, con la Global Sumud Flotilla, sto invece cercando di essere coerente con quei primi valori che mi sono stati trasmessi, quelli della nostra Costituzione. Coerente con l’idea che veramente la vita di una persona non vale più di un’altra, come invece stanno dimostrando nei fatti, oggi, coloro che affamano un popolo, inducendo una carestia.
In cosa hai sentito violati gli insegnamenti che avevi ricevuto?
Ci hanno detto che non avremmo mai aiutato uno Stato in guerra, ce lo hanno fatto giurare sulla “Costituzione più bella del mondo”, e invece è quello che stiamo facendo. La settimana scorsa, a Ravenna, sono stati i portuali, il sindaco e il presidente dell’Emilia Romagna Michele De Pascale a bloccare il transito di armamenti verso Israele. Azione necessario e giusta, ma non saremmo neanche dovuti arrivare a quel punto.
Sai cosa? Non è umano che delle vittime palestinesi non si conosca mai neanche il nome, mentre delle vittime del 7 ottobre si sappia – anche giustamente – ogni aspetto della loro vita.
Come hanno commentato le persone intorno a te, questo viaggio umanitario verso Gaza?
Ti racconto questo: io mi sono imbarcato portandomi una foto. È la foto delle ragazze e dei ragazzi con cui faccio politica da 15 anni, scattata la sera in cui contro tutte le aspettative siamo arrivati primi alla elezioni regionali del nostro partito. Sono persone che sento tutti i giorni, è come se fossero qui insieme a me. Anzi: lo sono. E naturalmente anche la mia compagna, ci sentiamo ogni giorno. È un viaggio collettivo e politico, come deve essere.
E in famiglia?
La mamma ha acceso un bel po’ di ceri in Chiesa.
È una metafora?
No (ride). È molto credente, lo ha fatto davvero.
Cosa pensi della tua generazione?
Penso che nel mezzo alle piazze di questi giorni ci sia soprattutto la mia generazione, anche quella che non si riconosce in un partito politico.
Penso che sul tema della guerra e dei conflitti la mia generazione sarebbe in grado di costruire un mondo totalmente diverso, e penso che uno dei problemi dell’Europa sia che non rinnova la sua classe politica.
Penso anche questo: la mia generazione possiede l’ingenuità – uso in modo positivo questa parola – di pensare fuori da determinate categorie, e oggi noi ne abbiamo un grande bisogno. Ad esempio che senso ha, oggi, l’alleanza con Nato e Stati Uniti, se Trump è il primo ad affermare di voler costruire una riviera di lusso a Gaza? Qual è il senso, oggi, di voler continuare a definire Israele “la più grande democrazia del Medioriente”?
In quale caso potremo parlare di un successo della Global Sumud Flotilla?
Quando la prima persona gazawi avrà accesso ai beni umanitari che stiamo portando, avremo avuto successo. Quando centinaia di navi, non solo qualche decina, potranno salpare dopo di noi, in questo caso avremo avuto veramente successo. Ma anche se questo non accadesse, il primo successo della nostra missione è avere risvegliato a pieno la coscienza di centinaia di migliaia di persone di fronte alla vergogna della complicità verso il genocidio a Gaza. E questo potevamo farlo soltanto mettendo a rischio i nostri corpi, anche se vorrei fosse chiaro che il rischio che corriamo noi è infinitamente minore rispetto al rischio che corrono le persone palestinesi ogni giorno. Ma comunque i nostri corpi occidentali di privilegiati, oggi esposti a un minimo di rischio, sono stati necessari per accendere la luce sulla complicità dei Governi occidentali.
Grazie Paolo Romano, e buon vento.
Grazie a te e buon vento a noi. Posso aggiungere un’ultima cosa, che riguarda il mio partito?
Certo.
Io sono orgoglioso di essere qui su questa barca, con il sostegno della segretaria Elly Schlein, con il parlamentare Arturo Scotto e con l’europarlamentare Annalisa Corrado. Sono processi lunghi, non facili, ma ci siamo. È questo il PD nel quale ho creduto e quello che può rappresentarci. Saverio, ti sembra troppo elettorale?
Io sorrido e passo lo sguardo su Yassine Lafram, presidente nazionale dell'UCOII – Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia, ora accanto a me.
Ciao Yassine, cosa significa essere presidente delle comunità islamiche in Italia?
Vuol dire mettere insieme storie che vanno da Bolzano a Catania. Oltre 140 comunità.
Cosa fai nel tuo ruolo, concretamente?
Due cose principali: rappresentanza, cioè diamo un volto alle comunità di fronte alle istituzioni nazionali, alla società civile e di fronte alle altre religioni presenti in Italia.
E poi lavoro per tutelare i diritti delle comunità, come il diritto ad avere un luogo di culto e un’area cimiteriale per le persone defunte di religione musulmana. Noi infatti non prevediamo la cremazione e la tumulazione, ma solo l’inumazione a terra, cioè la sepoltura sotto terra.
Qual è la questione più difficile che ti trovi ad affrontare, nel tuo ruolo?
La cosa più difficile è fronteggiare i venti di islamofobia durante le campagne elettorali, ma tu considera che qualche partito è sempre in campagna elettorale (ride). Islamofobia significa persone musulmane discriminate e osteggiate in quanto musulmane. Semplicemente per la religione che professano. E se l’islamofobia popolare si può arginare intensificando il dialogo, l’incontro, la conoscenza reciproca come già facciamo in tantissime città italiane, l’islamofobia più complicata da fronteggiare è quella istituzionale.
Mi fai qualche esempio di islamofobia istituzionale?
Ad esempio Matteo Salvini quando parla di terrorismo islamico anche in assenza di attentati, proprio unendo le due parole "terrorismo e Islam" e i due concetti, come se viaggiassero insieme, come se fossero davvero congiunti. Ad esempio qualche giorno fa, durante un’intervista su una TV israeliana, il vicepremier Salvini ha dichiarato che il più grande pericolo per la nostra civiltà è “il terrorismo islamico”. Lo ha detto alla TV di un Paese che sta commettendo un genocidio e in assenza di attentati. Oppure Flavio Tosi che ancora più recentemente ha pubblicato l’immagine di una donna musulmana in preghiera, scambiandola e accusandola di urinare sul marciapiede in pubblico. E invece stava soltanto pregando. Per molte persone l’islamofobia è diventata un mestiere.
Cambio argomento, o forse no. Perché ti sei imbarcato?
Sono su questa barca perché mi ero stancato delle sole dichiarazioni, dei comunicati stampa, delle nostre stesse parole. L’ho fatto insieme agli oltre due milioni di musulmani che vivono in Italia e che si sentono rappresentati da questo gesto, e che in qualche modo io sto portando su questa Flotilla in direzione Gaza.
Sono persone che guardano Al Jazeera e altri canali arabi, e sono informatissime su quello che sta accadendo in Cisgiordania e in Palestina. E come tutte vivono questo genocidio con frustrazione, dolore, e con il senso di incapacità nel fare qualcosa di realmente incisivo. Essere qui per me vuol dire rappresentare anche quel dolore e quella frustrazione.
Non ci sono soltanto i morti, in Palestina.
Ci sono i morti, i feriti, e il dolore di non conoscerli. Mi spiego meglio: sappiamo che le vittime più piccole, le bambine e i bambini uccisi, sono oltre 20.000. Ma ognuno di questi bambini è anche un nome e un cognome, una scuola dove andava, una famiglia. Amici, sogni. Speranze. E noi di tutto questo oggi non sappiamo niente. Sono bambini a cui anche prima di morire, o di rimanere feriti nel fisico e nell’animo, era impedito di lasciare la loro città.
Mi spieghi meglio questo aspetto?
Vivono tutti – o vivevano – nel più grande lager a cielo aperto del mondo, imposto da Israele che aveva già deciso per loro, molto prima del 7 ottobre, ad esempio cosa poteva entrare nella Striscia di Gaza e cosa no. Sai, ad esempio, che molti bambini e adulti, in Palestina, non hanno mai assaggiato alcuni tipi di frutti di bosco, perché Israele ha da sempre vietato che potessero entrare nella Striscia di Gaza? Ad esempio i mirtilli.
Già prima del 7 ottobre Israele decideva la quantità di alimenti che potevano entrare in base al consumo individuale di ogni abitante a Gaza. Contava le kilocalorie necessarie alla sopravvivenza di ogni persona, e centellinava. Ecco: la storia delle vittime non viene raccontata, sono quasi sempre soltanto numeri. Sono senza nome e senza cognome. Gli altri hanno una storia che li accompagna, hanno i profili social fatti di viaggi, siti archeologici, o della pizza mangiata a Napoli. Le persone in Palestina no, per loro è sempre stato impossibile uscire da quella Striscia. Hanno sempre vissuto in quella prigione a cielo aperto.
Yassine, come qualcuno ti ha detto, stupendosi, “Accidenti, tu parli bene italiano!”
Sono arrivato in Italia a 12 anni, ho fatto le scuole qui. Sono laureato in Lettere e Filosofia. Quando sono arrivato parlavo già arabo, dialetto marocchino e francese. Eppure quando sono arrivato mi hanno fatto fare un corso di alfabetizzazione, lo ricordo ancora, io che pure conoscevo già i caratteri latini e tre lingue. Sono arrivato nel 1998 con un ricongiungimento familiare, mio padre era arrivato in Italia quasi dieci anni prima. Mio suocero è palestinese, e mia suocera di Ferrara.
Gli spazi in barca sono strettissimi, lo sappiamo bene. E qualche giorno fa mi è capitato di ascoltare una tua telefonata con tuo figlio.
Ho capito a quale telefonata fai riferimento, è stata quando ho perso il suo primo giorno di scuola. Lui si chiama Mohammed, ha sei anni e non vedeva l’ora di andare a scuola, gli avevo promesso che lo avrei accompagnato e invece me lo sono perso e questa cosa mi addolora. Non è niente in confronto al dolore dei genitori di Gaza, il motivo vero per cui – alla fine – sono sopra questa barca.
Grazie Yassine.
Grazie a te Saverio.
