Referendum dell’8 e del 9 giugno: quali sono le ragioni del Sì e le ragioni del No

I referendum dell'8 e del 9 giugno si avvicinano e con loro l'ennesima resa dei conti tra le forze politiche di maggioranza e opposizione. Cinque i quesiti su cui gli italiani saranno chiamati a scegliere: quattro riguardano il lavoro, sono promossi dalla CGIL e puntano al superamento di alcune norme introdotte dal Job Act; il quinto, promosso da +Europa, Possibile, PSI, Radicali Italiani, Rifondazione Comunista e varie associazioni, riguarda la cittadinanza e dimezza i tempi per i tanti ragazzi che sono italiani di fatto ma che non sono riconosciuti come tali, subendo tutti gli svantaggi della loro condizione di "stranieri in patria".
Perché non sarà facile il raggiungimento del quorum
Facendo fede ai freddi numeri, difficilmente si raggiungerà il quorum, sia perché la quasi totalità dei partiti che sostengono il governo Meloni invitano ad "andare al mare" (con l'eccezione del "piccolo" Noi Moderati), sia perché l'astensionismo ormai endemico rende difficile il raggiungimento della metà più uno degli aventi diritto anche in consultazioni decisamente più sentite. Quando i padri costituenti regolamentarono i referendum nell'articolo 75 della Costituzione (la legge attuativa arrivò molto dopo), quasi tutti gli italiani andavano a votare e quella soglia fu stabilita per evitare un ricorso eccessivo alla consultazione popolare che avrebbe indebolito la funzione del Parlamento.
Oggi viviamo decisamente in un'altra epoca: il Parlamento è ormai esautorato da governi che portano nelle aule provvedimenti "blindati" dai voti di fiducia e i cittadini disertano sempre di più le urne: basti pensare che alle ultime elezioni europee ha votato il 48,3% degli aventi diritto, nel 1979 votò l'85,6%. Fatta la doverosa premessa, proviamo a sviscerare le ragioni del Sì e le ragioni del No.
Il quesito sulla cittadinanza

È quello che divide i partiti della maggioranza e quelli di opposizione e tocca uno dei cavalli di battaglia della propaganda dei partiti di destra: l'immigrazione. Se vincesse il Sì, si dimezzerebbe da dieci a cinque anni il tempo necessario per richiedere la cittadinanza agli stranieri che lavorano stabilmente in Italia e ai loro figli. Questo consentirebbe a molti figli di immigrati nati in Italia o arrivati sul territorio nazionale nei primi anni di vita, di poter ottenere il passaporto italiano in un tempo utile a non subire quella che oggi è una discriminazione di fatto: molti di loro, visti anche i tempi della burocrazia che li rende italiani quando ormai hanno più di vent'anni, non possono accedere a programmi come l'Erasmus, partecipare a concorsi pubblici, praticare sport a livello agonistico. E soprattutto devono rinnovare ogni anno un permesso di soggiorno, risultando stranieri a tutti gli effetti.

Tutti i partiti delle opposizioni, che vorrebbero una legge sullo Ius Soli (chi nasce in Italia è italiano) o sullo Ius Scholae (chi ha fatto un ciclo di studi in Italia è italiano) sostengono il Sì, sia perché considerano un'ingiustizia le limitazioni che subiscono i figli dei cittadini immigrati (gli immigrati regolari in Italia sono 5,307 milioni, il 9% della popolazione e rappresentano l'8,8% del PIL), sia perché sostengono che velocizzare il percorso per ottenere la cittadinanza favorirebbe una migliore integrazione. Di parere opposto i partiti della maggioranza, che sostengono lo slogan "la cittadinanza non si regala, bisogna meritarsela". Per Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani (che in Parlamento ha avanzato la proposta dello Ius Italiae, ma sul referendum è allineato alla posizione degli alleati), l'attuale legge va bene così e sostengono inoltre che una cittadinanza "più veloce" ai figli degli immigrati porterebbe a un boom di richieste di ricongiungimenti parentali.
Il quesito sui licenziamenti illegittimi

Quello sui licenziamenti illegittimi è il quesito che più va a colpire il Job Act introdotto dal governo a guida Matteo Renzi. I partiti dell'attuale maggioranza avevano fatto fuoco e fiamme contro le norme contenute nella riforma del Lavoro dall'ex "rottamatore", ma per scongiurare il raggiungimento del quorum, che favorirebbe il quesito sulla cittadinanza, si asterranno lo stesso. Più articolata la situazione nel campo delle opposizioni, dove i cosiddetti "riformisti" (Azione, Italia Viva e una corrente del Pd) si dividono tra non ritirare le schede sui quesiti promossi dalla CGIL e votare No.

Chi vota Sì chiede l'abrogazione della norma del Jobs Act, che riduce le garanzie per i lavoratori illegittimamente licenziati, garanzie già ridotte precedentemente dalla riforma Fornero. Prima delle modifiche, lo Statuto dei Lavoratori prevedeva, per le imprese con più di 15 lavoratori, che in caso di licenziamento illegittimo il dipendente fosse reintegrato in azienda. Il Job Act prevede una differenza di trattamento per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 (per i quali restano le garanzie del vecchio impianto normativo) e quelli assunti dopo. Per questi ultimi il diritto alla reintegrazione è oggi limitato ai licenziamenti nulli, discriminatori o orali, mentre per gli altri casi è previsto un risarcimento economico di massimo 36 mensilità. La norma riguarda anche i licenziamenti collettivi, con un risarcimento massimo fissato a 24 mensilità. Chi sostiene il Sì chiede di tornare all'obbligo di reintegro da parte delle aziende, salvo accordi legali diversi con il dipendente.

A votare No su questo e sugli altri quesiti sarà il partito di Carlo Calenda. Azione sostiene che la maggior parte dei lavoratori che vincono cause con l'azienda per licenziamenti illegittimi preferiscono ottenere un risarcimento, un risarcimento che anche grazie a successivi interventi della Consulta è già superiore (di 12 mesi) a quanto fu stabilito dalla Legge Fornero. Altra osservazione avanzata a difesa delle regioni del No, è che il lavoratore che oggi subisce un licenziamento collettivo non avrebbe più diritto a risarcimenti ma dovrebbe tornare in un'azienda in crisi e a rischio chiusura. Per Azione con il Job Act "è iniziato un processo di armonizzazione dell’ordinamento italiano rispetto a quello degli altri ordinamenti dei Paesi-membri della UE" e tornare indietro frenerebbe anche i gruppi stranieri che non investirebbero in Italia a causa di regole troppo stringenti.
Il quesito sui licenziamenti nelle piccole imprese

Il secondo quesito dei referendum dell'8 e 9 giugno riguarda i licenziamenti nelle aziende con meno di 15 dipendenti. Chi sostiene il Sì chiede di eliminare il tetto di 6 mensilità per l'indennizzo economico, lasciando al giudice carta bianca sulla cifra, che dovrà tornare a tenere conto di fattori quali età, carichi di famiglia, e capacità economica dell’azienda.
Chi sostiene il No si rifà a un pronunciamento della Corte Costituzionale, che chiede al legislatore di modificare l'attuale parametro che definisce un'impresa "piccola" solo in funzione del numero di dipendenti e non in relazione ad altri parametri come ad esempio il fatturato. Per chi si oppone alle ragioni del quesito si rischia di penalizzare le piccole imprese, che a differenza di quelle grandi non avrebbero un tetto massimo di risarcimento da erogare al dipendente ingiustamente licenziato. Inoltre, per i sostenitori del No, imporre un numero di mensilità eccessivo causerebbe la chiusura di molte piccole realtà, che non potrebbero permettersi quelle cifre.
Il quesito sui contratti a termine

Il terzo quesito sul lavoro riguarda i contratti a termine. Chi sostiene le ragioni del Sì chiede di abrogare quelle norme che facilitano l'utilizzo dei contratti a tempo determinato, reintroducendo l'obbligo di una "causale" alle aziende che vi ricorrono. È un altro quesito che va a toccare una norma del Job Act e trova l'opposizione di Azione, Italia Viva e i reduci "renziani" nel Partito Democratico. Se il quesito passasse, i contratti a termine saranno accettati solo se previsti dai contratti collettivi o per sostituzione di lavoratori, per un periodo massimo di 24 mesi.

Chi sostiene il No è contrario a un irrigidimento che impedirebbe alle imprese di ricorrere ai contratti a termine anche di fronte a imprevisti incrementi straordinari della produzione. Altro argomento avanzato è che le aziende non avrebbero più la possibilità di valutare il dipendente, perdendo la possibilità di non confermarlo in caso di risultati giudicati insoddisfacenti. Ad avvalorare la tesi, vengono infine portati i numeri attribuiti alla riforma del lavoro renziana, ovvero un aumento di 390mila lavoratori assunti a tempo determinato e 1,5 milioni a tempo indeterminato.
Il quesito sulla responsabilità solidale nei contratti d'appalto

L'ultimo quesito dei referendum dell'8 e 9 giugno che tocca il Lavoro riguarda la responsabilità solidale nei contratti. Chi sostiene le ragioni del Sì punta a ripristinare la cosiddetta "responsabilità solidale del committente" nei confronti dell'appaltatore e del subappaltatore per gli infortuni sul lavoro, anche nei casi di rischi specifici delle imprese interessate. In sostanza, qualora un lavoratore di un'azienda appaltatrice dovesse subire un infortunio sul lavoro, parte della responsabilità tornerebbe a ricadere sull'azienda appaltatrice, che dovrà contribuire al risarcimento.
Chi sostiene il No sostiene che la norma bloccherebbe gli appalti e di conseguenza tutti i lavori pubblici. Per chi si oppone al quesito è "irragionevole" imporre delle responsabilità a un'azienda che segue un corretto iter per affidare un appalto, verificando le certificazioni e l'affidabilità dell'appaltatore.