“Quando mi hanno dato la diagnosi di HIV ho pianto, all’inizio non l’accettavo”: la storia di Pietro

“Il 1° giugno del 1995 ho fatto il test dell’HIV e il medico, senza prepararmi, senza dirmi niente, qualche giorno dopo mi ha dato l’esito: tenga, positivo. Mi è crollato il mondo addosso”. Quando a Pietro è stato detto che aveva contratto il virus, aveva 25 anni, è caduto nello sconforto e ha tentato di togliersi la vita. Oggi, a 56 anni, ha deciso di raccontare la sua storia a Fanpage.it, nella giornata mondiale contro l’Aids.
“Dopo che mi hanno dato la diagnosi, non l’ho detto a nessuno; ho pianto. Poi, ne ho parlato con uno dei miei fratelli (Pietro è il settimo di quattordici figli). Non l’accettavo, non riuscivo a sopportare l’idea. Non c’erano cure efficaci. Ho cercato il suicidio due volte. Prima facevo l’allevatore a Sant’Antioco (un’isola della Sardegna). Sono arrivato a Brescia nel 1990 e ho lavorato in fonderia. Lì avevo fatto il test per semplice curiosità, perché lo proponevano gratuitamente.”
“Ho avuto problemi nel rapporto con i miei familiari. Sono stato emarginato da loro. Ero diventato una persona che faceva paura, un untore. Nonostante tutto, gli sono ancora affezionato”, continua Pietro, che è rimasto orfano di madre quando aveva tredici anni e che, a causa della malattia, ha terminato la relazione con la propria compagna di vita. “Ho fatto tutto il possibile per farmi lasciare dalla donna con cui convivevo, perché avevo paura di contagiarla (lei non era positiva). Lei ha saputo della mia diagnosi perché lavorava in ospedale e mi ha visto ricoverato. Dopo sei mesi ci siamo lasciati, a malincuore”.
“Ma è proprio nell’esperienza con lei che ho capito di dover affrontare la situazione, perché nasconderle il problema ha solo peggiorato il rapporto. Lei mi ha detto che se gliene avessi parlato, avremmo affrontato la questione assieme. Ora non ci sentiamo più”.
La sua è una storia di chi ha lentamente perso le energie. “Sono andato avanti a lavorare fino al 2004, assumendo i farmaci antiretrovirali, poi ho perso le forze. Nel 2005 mi hanno ricoverato per una crisi depressiva. Ho avuto un’ischemia al cervello, sono stato in coma. Dopo essermi risvegliato con due agocannule sulle braccia, non sapevo dove mi trovavo. In quel momento, l’infermiere mi ha detto: “Bentornato tra noi”.
“Il 10 ottobre sono uscito dall’ospedale”, continua Pietro, che ha le date scolpite nella mente, come capisaldi di un percorso durissimo. “Lo specialista che mi seguiva mi ha proposto di andare a vivere in una casa famiglia a Sassari, dove avevo fatto il militare”. La struttura della cittadina sarda è attiva dal 1998 ed è ancora oggi gestita dall’Associazione senza fini di lucro Mondo X (fondata nel 1980 da padre Salvatore Morittu, dei frati minori francescani, per assistere i tossicodipendenti). È l’unica in Sardegna dedicata specificamente ai malati di Aids e può ospitare fino a 12 persone.
“Sono arrivato qua il 18 ottobre del 2005 e sono rimasto fino al 2010. Nel 2007 ho cominciato ad andare nei terreni di S’Aspru (una comunità di tossicodipendenti appartenente alla stessa associazione della casa famiglia, ndr). Una volta al mese, per una settimana, andavo lì ad accudire le pecore. Mi piaceva”.
“Sono andato via dalla casa-famiglia nel 2010, pensando di essere pronto a vivere da solo. Ma non era così. Allora andavo a mungere le capre e, nel 2011, ho deciso di prendere a Sant’Antioco un terreno in mezzadria, ma dopo un anno non ce l’ho fatta più. Ho avuto nuovamente bisogno di una struttura e qua [a Sassari] non c’era più posto. Mi hanno trovato una struttura a Torino. Poi ho chiesto di tornare in Sardegna”.
“Sono tornato nella casa-famiglia di Mondo X il 4 aprile del 2024. Mi trovavo bene anche nelle altre, ma volevo tornare in Sardegna”.
“Ora la situazione è cambiata”, racconta Pietro, che negli anni ha visto evolvere le terapie e i loro effetti. “Fino al 2013 pensavo di poter contagiare e morire da un momento all’altro. Dal 2013, capisco che il virus può essere inoffensivo. Prima ho iniziato a prendere una manciata di pastiglie (tante, più o meno inefficaci), ora ne prendo solo una (la cura è quotidiana e permette al virus di non circolare nel sangue; se non circola non è trasmissibile, ndr). Oggi mi sento sereno, anche se quando vedo il mio sangue non permetto a nessuno di avvicinarsi”.
Alessandra Buondonno, responsabile della struttura, lo descrive come attento agli altri. Nella casa-famiglia si monitorano le terapie, si segue uno stile di vita adeguato e si presta particolare attenzione all’igiene; poi c’è un’accoglienza di tipo familiare che cerca di resuscitare le dimensioni affettive e relazionali. Ci sono ospiti che non sono autonomi, e Pietro mette al servizio degli altri le sue capacità e il suo cuore.
“Mi dà fastidio che lo Stato non faccia niente; l’unico che è riuscito a fare qualcosa è un frate”, si lamenta lui, parlando dell’associazione che lo ha aiutato. Poi racconta com’è mutata la sua attitudine alla vita negli ultimi anni: “Prima facevo dei progetti, ora ho imparato a vivere giorno per giorno, mettendo cose belle in ogni singola giornata”.
“Se devo dare dei consigli, direi che ci vuole più attenzione nei rapporti sessuali occasionali, più precauzioni e poi la sincerità: se uno ti vuole bene, ti accetta comunque per quello che sei”.