video suggerito
video suggerito
Opinioni

Perché quelle che Salvini usa per bloccare la legge sul consenso sono solo scuse

Il disegno di legge sul consenso è stato bloccato al Senato. La spiegazione ufficiale parla di “discrezionalità”. Ma sotto la superficie c’è molto di più: la resistenza di un potere maschile che vede minacciato un ordine antico.
A cura di Francesca Moriero
42 CONDIVISIONI

Immagine

Il disegno di legge sul consenso ieri è stato bloccato. E non da qualche estremista improvvisato, ma dal cuore del potere maschile italiano: il Senato. Un luogo ancora oggi composto in larga parte da uomini sopra i quarant'anni, che hanno fatto ciò che fanno sempre quando un cambiamento culturale sfiora il loro perimetro: hanno tirato il freno. Un dato, questo sì politico: ogni volta che si tenta di spostare anche di un millimetro il baricentro del patriarcato, gli ingranaggi istituzionali rallentano, inceppano, resistono.

La spiegazione arriva oggi da Matteo Salvini, che garantisce di voler "fermare gli intollerabili episodi di violenza", però (c'è sempre un però), bisogna "limitare la discrezionalità" e "proteggere uomini e donne da chi si vuole vendicare di un rapporto finito male".

È una frase che andrebbe studiata nei corsi di sociologia del potere: non parla di violenza, ma di paura del cambiamento; non parla di consenso ma di controllo. E soprattutto sposta il centro del discorso dalla protezione delle vittime… alla protezione degli imputati.

La verità è che il nodo non è il diritto penale. È la perdita di sovranità su un territorio che per secoli è stato considerato a libero uso: il corpo femminile. Il corpo delle donne non è ancora riconosciuto come soggetto politico: è un campo semantico da interpretare, un terreno dove gli uomini esercitano autorità linguistica prima ancora che fisica. Sono loro a decidere cos'è stupro, cos'è eccesso di zelo, cos'è leggerezza, cos'è malizia, cos'è "vendetta". Il corpo femminile rimane una competenza maschile, non un soggetto, ma un oggetto di normazione.

La richiesta di inserire il consenso come criterio giuridico chiaro sposta questo centro. Lo sposta radicalmente: dice che il desiderio delle donne ha valore legale, che l'autonomia delle donne produce norme, che il limite delle donne diventa un limite dello Stato. Ed è questo che fa paura. Non le false accuse, che sono lo 0,18%. Non il fatto che una donna possa dire "no" perché dorme, perché è ubriaca, perché è paralizzata dalla paura, o semplicemente perché cambia idea, o perché sa che opporsi peggiorerà tutto. Fa paura la fine dell'arbitrio: dover chiedere. Dover attendere, rispettare, invece che prendere come proprietari. Fa paura che il consenso non sia più una formalità etica, ma una cornice politica: un dispositivo che obbliga gli uomini a interrogare i propri privilegi, decostruire la propria postura nella relazione, ripensare la genealogia culturale del proprio desiderio. Un dispositivo che incrina non solo la violenza, ma la gerarchia.

Per questo, al Senato, il ddl si ferma.
Perché il punto non è la legge. Il punto è che per la prima volta la società chiede agli uomini di fare ciò che alle donne viene imposto da secoli: mettersi in discussione. Non per cavalleria, ma per democrazia.

E se questa frase non basta, allora basta la storia: le donne si sono messe in discussione quando hanno lottato per votare; quando hanno rivendicato il diritto di studiare, di entrare nelle università, nelle professioni, nei luoghi da cui erano escluse; quando hanno smontato stereotipi, abitudini, gerarchie che le definivano "adatte" solo a certi ruoli; quando hanno preteso di non essere licenziate perché incinte; quando hanno rivendicato il diritto a dire no al proprio marito; quando hanno chiesto l'aborto libero e sicuro; quando hanno preteso il divorzio; quando hanno lottato per la libertà di scegliere se avere o non avere figli; quando hanno inventato i consultori, i centri antiviolenza, il lessico per nominare ciò che subivano; quando hanno dovuto lottare per dimostrare di meritare ciò che agli uomini era garantito per default; quando hanno dovuto raccontare, spiegare, giustificare, educare, tradurre la violenza perché non veniva creduta; quando hanno dovuto decostruire ogni stereotipo cucito addosso, e rifare da zero l'alfabeto della libertà. Da oltre un secolo, le donne fanno il lavoro culturale che agli uomini oggi appare "fastidioso": interrogarsi, smontarsi, rimettere in ordine il mondo. Ecco perché una legge sul consenso diventa una minaccia simbolica. Perché chiede agli uomini di fare, per la prima volta, un gesto che le donne compiono da generazioni: ridefinire se stessi.

Questo è il nocciolo, quello che non si dice mai ma che attraversa ogni dichiarazione istituzionale: una norma sul consenso è una scomodità, una revisione dello status, un cambio di postura mentale prima ancora che sessuale. Una norma che mina un ordine simbolico in cui il desiderio maschile è stato considerato un diritto, e quello femminile un dettaglio.

Il 25 novembre abbiamo sentito parlare ovunque di impegno, maratone, panchine rosse. Nello stesso giorno abbiamo visto una parte della politica reale fare ciò che fa da decenni: difendere i privilegi prima della vita.

L'Italia non è un Paese che non capisce la violenza di genere. È un Paese che non vuole cedere il potere che la genera.

42 CONDIVISIONI
Immagine
Genovese trapiantata a Roma. Ho lavorato per Class Editori e Radio3 e ho frequentato la scuola di giornalismo Lelio Basso. Per molti anni, come freelance, mi sono occupata di politica nazionale e internazionale, realizzando reportage sul campo in Paesi come Turchia, Siria, Albania, Bosnia. Ho collaborato con Domani, Internazionale, il manifesto, Lifegate e Tpi. Oggi a Fanpage scrivo di politica e tematiche sociali. 
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views