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Opinioni

Perché la storia di Marco, uomo trans in gravidanza, dimostra che l’Italia non sa gestire le diversità

Il caso di Marco (nome di finzione), un ragazzo in transizione che ha scoperto di essere in gravidanza da cinque mesi, ha creato confusione nella politica e nei media italiani. Il punto non dovrebbe essere la sua vita privata ma, se mai, l’impreparazione dell’Italia ad accettare che le persone transgender esistono.
A cura di Jennifer Guerra
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Un ragazzo romano in transizione ha scoperto, subito prima dell’intervento di isterectomia, di essere in gravidanza da cinque mesi. Il giovane aveva infatti quasi completato l’iter di affermazione di genere e aveva già provveduto alla rettifica anagrafica dei documenti. Il caso è delicato e complesso, visto che non si conoscono bene i rischi per lui, che è sottoposto a terapia ormonale, e per il feto. Ci sono anche una serie di complicazioni legali: essendo all’anagrafe un uomo, non può accedere all’ivg e, se vorrà portare a termine la gravidanza, non è chiaro in quale veste avverrà il riconoscimento del figlio. Si tratta del primo caso noto in Italia che riguarda il tema della gravidanza per le persone transgender, e si vede. La disinformazione, l’allarmismo e la curiosità pruriginosa che lo riguardano in queste ore dimostra quanto il nostro Paese sia arretrato sui diritti delle persone transgender.

Lucio Malan, senatore di Forza Italia da sempre affine alle posizioni anti-gender, ha parlato di “celebrazione della mutilazione del corpo femminile” e si ostina a chiamare Marco (il nome di fantasia con cui i media si stanno riferendo al ragazzo) una donna. I giornali di destra stanno insistendo sulla notizia per evidenziare la loro contrarietà alle terapie ormonali o alimentare ancora una volta l’idea di una “epidemia trans”. Ma anche Repubblica, il primo giornale a darne notizia, ha scritto che Marco si ritrova a essere “uomo e allo stesso tempo futura mamma”, usando una parola che mal si adegua all’identità del ragazzo.

La transizione di genere è una procedura resa legale da una legge del 1982, legge che tra l’altro molti attivisti LGBTQ+ ritengono ormai inadeguata. Al di là delle critiche del movimento, l’identità transgender in Italia è quindi riconosciuta da più di 40 anni, eppure stiamo ancora qui a discuterne la legittimità, politica e morale, come se l’esistenza delle persone trans fosse qualcosa che va autorizzata dal tribunale del popolo.

La legge 164 del 14 aprile 1982 prevede che una persona possa rettificare l’attribuzione di sesso (e di conseguenza il nome) a seguito di un percorso di adeguamento dei caratteri sessuali e l’autorizzazione di un giudice. Se in passato era necessario compiere procedure mediche irreversibili, recenti interpretazioni della legge, in accordo anche con gli standard internazionali in materia, consentono la rettifica del nome anche prima di questi interventi, riconoscendolo come un atto necessario al benessere psico-fisico della persona. Da diversi anni, il movimento LGBTQ+ chiede che la legge 164 venga superata, per semplificare il lungo iter burocratico a cui si devono sottoporre le persone trans per affermare la loro identità, come avviene già in altri paesi europei.

Uno dei nodi principali riguarda proprio la sterilizzazione delle persone trans: in nove Paesi europei (Finlandia, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Kosovo) le persone trans devono sottoporsi a interventi di sterilizzazione prima di procedere alla rettifica. Nel 2017, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato che la sterilizzazione forzata delle persone trans è una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani, che riguarda il rispetto della vita privata delle persone. La gravidanza di una persona trans, che come tutte le persone ha diritto a scegliere se diventare genitore, è quindi una possibilità che non solo non viola alcuna legge, ma anzi che è tutelata.

Nel caso in questione, la gravidanza non era pianificata. Il testosterone, anche se si è in amenorrea, non è infatti un metodo anticoncezionale, nonostante alcuni studi suggeriscano che abbia un impatto temporaneamente negativo sulla fertilità. Nel caso che una persona voglia rimanere incinta, di solito si interrompe la terapia per un periodo, durante il quale l’ovulazione riprende ed è possibile portare avanti la gravidanza.

Del caso di Marco non sappiamo nulla, come è giusto che sia. L’esistenza delle persone trans non dovrebbe essere una notizia né tantomeno un argomento di dibattito. Quello di cui andrebbe discusso, se mai, è la palese impreparazione di fronte a un caso come il suo, la tutela della salute delle persone trans e l’educazione sessuale. E anche perché, per raccontare la sua storia, media e giornali non sanno quali parole usare, sbagliano pronomi e aggettivi, attribuiscono volontà e comportamenti che nessuno di noi ha il diritto di conoscere o giudicare. Come ha scritto la fumettista Josephine Yole Signorelli, in arte Fumettibrutti, “il caso di Marco fa scoprire quanto le strutture, come la società stessa, siano impreparate alle vite transgender, non previste”.

La storia di Marco sarà anche particolare, ma tutto ciò che le ruota attorno è tristemente familiare per questo Paese incapace di tacere di fronte al modo in cui le persone gestiscono i propri corpi.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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