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Manovra 2025

Perché la Sanità in Italia è al collasso e cosa deve fare il governo Meloni per evitarlo, secondo Gimbe

Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, ha risposto alle domande di Fanpage.it sulla situazione del Servizio sanitario nazionale e sulla prossima legge di bilancio del governo Meloni. Il punto non è mettere “troppi soldi tutti insieme”, che comunque non ci sarebbero, ma intervenire con riforme e finanziamenti graduali e progressivi. Altrimenti, “qual è il valore di qualche decina di euro in più in busta paga se poi bisogna sborsarne centinaia?”.
Intervista a Nino Cartabellotta
Presidente della Fondazione Gimbe
A cura di Luca Pons
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La sanità pubblica è uno dei temi che preoccupano di più gli italiani, con una quota decisamente alta di famiglie che devono rinunciare alle cure oppure pagare di tasca propria per passare dai professionisti del privato. Ora che il governo Meloni si avvicina alla sua prossima legge di bilancio, anche se i fondi a disposizione saranno pochi, Fanpage.it ha intervistato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, organizzazione indipendente che monitora il sistema sanitario italiano.

La situazione, ha detto Cartabellotta, è grave e non solo per responsabilità dell'ultimo governo. Ma senza un cambio di rotta deciso, presto ci si potrebbe ritrovare in un Paese in cui il diritto alla salute spetta solo a chi può pagare. Una situazione in cui, per certi versi, già ci troviamo.

Il dibattito sulla prossima legge di bilancio si sta concentrando su alcuni temi in particolare – carenza di risorse, riforme su tasse, lavoro e pensioni – mentre di fondi per la sanità si parla poco. È preoccupante?

Nessun governo negli ultimi quindici anni ha mai posto la sanità al centro dell’agenda politica. Anzi, visto che la spesa sanitaria è la fetta di spesa pubblica più facilmente "aggredibile", tutti gli esecutivi hanno tagliato o non investito adeguatamente per esigenze di finanza pubblica o per soddisfare i propri elettori. Il risultato è che, se nel 2010 l’Italia poteva contare su una spesa pubblica pro-capite pari alla media dei Paesi europei, nel 2023 abbiamo accumulato un gap di 807 euro pro-capite, che si traduce nella cifra monstre di oltre 47,6 miliardi di euro.

La tenuta del Servizio Sanitario Nazionale è prossima al punto di non ritorno e non riguarda più gli operatori del settore, ma 60 milioni di persone: non a caso tutti i sondaggi testimoniano come la sanità sia diventata la priorità del Paese. D’altronde qual è il valore di qualche decina di euro in più in busta paga se poi bisogna sborsarne centinaia per un accertamento diagnostico o una visita specialistica?

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Il ministro della Salute Orazio Schillaci ha detto che il 7% del Pil è la spesa "minima" per il Ssn. Succedesse sarebbe sufficiente?

La posizione della Fondazione Gimbe è molto chiara. Troppi soldi tutti insieme non servono perché non sapremo spenderli in maniera efficiente.

Cosa serve, quindi?

Bisogna programmare un rilancio progressivo e consistente del finanziamento pubblico della sanità per allinearlo alla media dei Paesi europei, e avviare parallelamente una stagione di coraggiose riforme. Perché oggi continuiamo ad erogare l’assistenza sanitaria secondo regole definite oltre trent'anni fa e, nel frattempo, abbiamo attraversato una transizione demografica e una trasformazione digitale.

Uno dei problemi in Italia è che, con governi che in media hanno vita breve, la linea politica cambia spesso. Come si può programmare una "stagione di riforme" sulla sanità che duri anni, in questa situazione?

Il rilancio del finanziamento pubblico, da destinare in primis alla valorizzazione del personale sanitario per rendere attrattivo il Ssn, deve far parte di un nuovo patto politico e sociale che prescinda da ideologie partitiche e avvicendamenti di governo. Se rispettiamo il patto con la Nato destinando il 2% del Pil alle spese militari, perché non si può fare un patto con i cittadini per rilanciare la sanità arrivando al 7% del Pil? Perché in alternativa, persistendo il sotto-finanziamento con cifre da "manutenzione ordinaria", continuerà la progressiva erosione del diritto alla tutela della salute.

Come siamo arrivati a questo punto di crisi?

Nel marzo 2013, in occasione del lancio della campagna “Salviamo il nostro Servizio Sanitario Nazionale” la Fondazione Gimbe presagì che la perdita del Ssn non sarebbe stata annunciata dal repentino fragore di una valanga, ma si sarebbe manifestata come il silenzioso scivolamento di un ghiacciaio, attraverso anni, lustri, decenni. Che lentamente, ma inesorabilmente, avrebbe eroso il diritto costituzionale alla tutela della salute. E dopo undici anni dati e cronaca dimostrano che il collasso del Ssn ha già compromesso tale diritto nelle fasce socio-economiche più deboli, negli anziani fragili e nel Mezzogiorno.

Cosa significherebbe concretamente per i cittadini "perdere il diritto alla tutela della salute"?

Spianare definitivamente la strada a una sanità regolata dal libero mercato, dove le prestazioni saranno accessibili solo a chi potrà pagare di tasca propria o avrà sottoscritto costose polizze assicurative. Che, in ogni caso, non potranno mai garantire una copertura globale come quella offerta dal Ssn nemmeno ai più abbienti.

Il ministro Schillaci ha detto che un prossimo intervento, collegato alla manovra, mirerà a "rendere più attrattive" le professioni sanitarie. È la direzione giusta?

Assolutamente sì! Il rilancio delle politiche del personale sanitario è prioritario: bisogna prevedere adeguamenti contrattuali in linea almeno con la media dei Paesi europei, garantire un netto miglioramento delle condizioni organizzative e della sicurezza sul lavoro e delle progressioni di carriera. Perché il progressivo abbandono del Ssn da parte di tutte le categorie professionali e il declino delle iscrizioni ai corsi di laurea, in particolare Scienze Infermieristiche, e ad alcune scuole di specializzazione (medicina d’urgenza in primis), non fanno ben sperare per il futuro.

Un'altra misura dovrebbe riguardare la "revisione della sanità territoriale e ospedaliera" per aumentare i posti letto. Non si conoscono ancora i dettagli, però.

La “revisione della sanità territoriale e ospedaliera” è un work in progress ormai da troppo tempo, e per ciò che riguarda il territorio, è anche un obiettivo specifico del Pnrr. Ma onestamente ritengo che i dettagli siano poco rilevanti in assenza di coraggiose riforme di sistema. Perché tra differenti modelli organizzativi regionali, carenze del pubblico, interessi del privato e mancate sinergie (se non addirittura accesi contrasti) tra varie categorie professionali, l’integrazione ospedale-territorio finalizzata ai bisogni sanitari e socio-sanitari dei pazienti rimarrà un cantiere aperto a tempo indeterminato.

Finora l’intervento forse più pubblicizzato del ministero della Salute è stato il decreto Liste d’attesa. È in vigore da qualche mese: si può fare un primo bilancio sulla sua efficacia?

Impossibile fare bilanci. Dopo la conversione in legge del cosiddetto dl Liste di attesa dovranno essere adottati almeno sette decreti attuativi con tempi di pubblicazione in parte definiti (30 o 60 giorni), in parte non indicati. Inoltre, i tempi tecnici di attuazione delle misure sono medio-lunghi e richiedono una stretta collaborazione di Regioni e Aziende sanitarie: ovvero, i benefici per i cittadini non saranno affatto immediati. Peraltro, ho già espresso numerose perplessità sulla potenziale efficacia del dl, che prevede solo di inseguire la domanda aumentando l’offerta: una strategia perdente perché, esaurito l'"effetto spugna" nel breve periodo, l'incremento dell’offerta poi induce un ulteriore aumento della domanda.

Il dl è tanto perentorio nei termini e sovrabbondante nella forma, quanto povero di interventi efficaci per risolvere i problemi strutturali del Ssn che alimentano il problema delle liste di attesa. Ricondurre tutti i problemi del Ssn alle liste di attesa è troppo semplicistico: sembra che l’importante sia esigere/erogare una prestazione sanitaria in tempi brevi, e non importa se l’erogatore sia pubblico o privato.

Ridurre i tempi della sanità non è un aspetto importante?

Non se si dimentica che abbiamo realmente perduto è la capacità del Ssn di prendere in carico i pazienti, soprattutto i cronici, e in primis quelli oncologici. Pazienti oggi costretti a peregrinare tra diversi Cup, tra vari ospedali sino a Regioni diverse, nel disperato tentativo di prenotare una visita o un esame diagnostico, attività di cui un tempo si occupava il Ssn seguendo il percorso diagnostico-terapeutico del malato.

Ecco perché bisogna investire sul personale sanitario aumentando gli organici. Il dl invece, puntando sulla defiscalizzazione degli straordinari (ti pago di più per lavorare di più), rischia di stremare quello già in servizio, alimentando ulteriormente la fuga dei professionisti dal Ssn.

Quest’anno il governo ha anche varato l’autonomia differenziata. Il ministro Schillaci ha detto che in sanità per molti aspetti l’autonomia differenziata già c’è, che le disparità tra le Regioni ci sono già a causa della riforma del Titolo V del 2001.

Non confondiamo l’autonomia differenziata con le diseguaglianze regionali che peraltro esistevano anche prima della riforma del titolo V, in quanto condizionate dal contesto politico e sociale e dalla cattiva gestione amministrativa del Mezzogiorno.

E perché con l'autonomia differenziata potrebbero peggiorare?

Le maggiori autonomie rafforzeranno le Regioni del Nord indebolendo il Sud, causando la fuga di professionisti e creando carenze di medici. Ci sarà una distribuzione disomogenea dei medici di famiglia e specialisti, per le maggiori autonomie nella definizione delle borse di studio, e maggiori opportunità per il privato intervenendo sul sistema tariffario.

Per Schillaci il ministero della Salute dovrà avere comunque "un ruolo di controllo e di guida". Ha ragione?

D’accordissimo sul potenziamento delle capacità e indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni, ma è un ruolo a cui lo Stato ha abdicato da tempo, favorendo inevitabilmente le diseguaglianze regionali. È solo intervenuto con Piani di rientro e commissariamenti che, di fatto, hanno anteposto l’obiettivo del riequilibrio finanziario a quello della riorganizzazione e riqualificazione dei servizi sanitari regionali, con conseguente aumento delle diseguaglianze Nord-Sud e della mobilità sanitaria.

Ecco perché in questo contesto l’autonomia differenziata non solo affosserà definitivamente la sanità del Sud, ma darà anche il colpo di grazia al Ssn, causando un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti. Sempre più pazienti si sposteranno dal Sud al Nord in cerca di cure migliori, generando un sovraccarico per la sanità delle Regioni settentrionali che non potranno espandere indefinitamente la capacità di erogare servizi e prestazioni. Un effetto boomerang che limiterà l’accesso alle prestazioni sanitarie per i propri residenti.

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