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Perché la posizione della neoministra Roccella sull’aborto non è affatto femminista, come dice lei

La posizione della neoministra della Famiglia Roccella sull’aborto non ha nulla a che vedere con il complesso dibattito che l’Italia degli anni Settanta stava affrontando. Nessuna femminista dell’epoca si sarebbe fatta portavoce di un evento come il Family Day del 2007 o avrebbe mai definito il matrimonio «una vecchia e gloriosa istituzione umana che non merita di essere distrutta e svuotata di significato».
A cura di Jennifer Guerra
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A fine agosto, durante la campagna elettorale, la neoministra per la Famiglia Eugenia Roccella e la deputata Laura Boldrini si scontrarono in tv sul tema dell’aborto. Roccella, che all’epoca era ancora una semplice candidata di Fratelli d’Italia aveva detto di non considerare l’aborto un diritto: «Io sono una femminista e le femministe non lo hanno mai considerato un diritto, dicendo che esula dal territorio del diritto». Aveva poi aggiunto che l’aborto «è il lato oscuro della maternità” e che «la maternità che non è mai entrata nello spazio pubblico». Boldrini si era trovata in difficoltà a rispondere alle dichiarazioni di Roccella, riuscendo soltanto a controbattere che anche lei, come femminista, lo considerava un diritto e che le donne devono decidere liberamente.

Dopo la nomina di Roccella al ministero per la Famiglia, le Pari opportunità e la Natalità, quel dibattito televisivo è ritornato a circolare. Il ministero infatti con ogni probabilità si occuperà anche di ostacolare l’accesso all’interruzione di gravidanza, a maggior ragione avendo ora a suo capo una figura fortemente contraria all’aborto (così come all’eutanasia e alle unioni civili). La polemica sull’aborto come diritto è andata avanti sulle pagine de La Stampa, dove Loredana Lipperini – scrittrice e conduttrice radiofonica vicina al Partito radicale – ha invitato Roccella a essere «onesta sull’aborto», riferendosi al passato della ministra.

La storia di Roccella è infatti molto particolare: figlia di uno dei fondatori del Partito radicale e di una pittrice femminista, negli anni Settanta militava nel Movimento di Liberazione della Donna (MLD), un gruppo femminista fuoriuscito proprio dal Partito radicale che ebbe un ruolo fondamentale nella depenalizzazione dell’aborto, organizzando proteste in piazza e soprattutto praticando l’aborto autogestito. Per capire il ruolo di Roccella in questo ambiente, basta sapere che nel 1975 curò per l’MLD il libro "Aborto: Facciamolo da noi" in cui rivendicava l’importanza dell’aborto libero. Negli anni, Roccella si è allontanata dal femminismo e si è avvicinata sempre di più agli ambienti cattolici, addirittura diventando nel 2007 la portavoce della manifestazione antiabortista del Family Day e partecipando a numerose iniziative contro “il gender”.

Questo suo allontanamento non è però coinciso con un rinnegamento delle sue posizioni femministe, ma con una loro manipolazione. Rispondendo a Lipperini, Roccella ha infatti sostenuto citando alcune teoriche femministe come Carla Lonzi che il femminismo non ha mai considerato l’aborto un diritto. Oltre a essere una considerazione che non rispecchia affatto la complessità e la varietà delle posizioni all’interno del movimento negli anni Settanta, si tratta di un uso strumentale del pensiero di una filosofa che non era affatto un’antiabortista come oggi lo è Roccella. Innanzitutto, come ha precisato anche la storica esponente del femminismo italiano Lea Melandri, le femministe “contrarie all’aborto”, sostenevano comunque la necessità della depenalizzazione, ma erano contrarie alla formulazione di una legge che, scritta dagli uomini, avrebbe finito con l’introdurre una forma più sottile di controllo sul corpo delle donne. Erano convinte «che l'aborto non doveva più essere un crimine. Diversa è oggi la posizione di Roccella, che non si limita a dire che l'aborto non è un diritto, ma non vorrebbe più neppure la libertà di abortire», scrive Melandri.

Inoltre, come ha spiegato perfettamente Giulia Siviero, dire che Carla Lonzi fosse contro l’aborto è una interpretazione piuttosto riduttiva. Lonzi infatti legava l’aborto alla mancata autonomia sessuale delle donne: dovendo sottostare alla sessualità maschile, accettavano di conseguenza la possibilità di rimanere incinte e quindi di abortire. La filosofa era convinta che anche la regolamentazione dell’aborto sarebbe stata gestita dagli uomini, deresponsabilizzandoli ulteriormente: «Negandole la libertà di aborto l’uomo trasforma il suo sopruso in una colpa della donna. Concedendole tale libertà l’uomo la solleva della propria condanna attirandola in una nuova solidarietà», scriveva nel suo seminale saggio "La donna clitoridea e la donna vaginale", del 1971.

L’attuale posizione di Roccella sull’aborto non ha nulla a che vedere con il complesso dibattito sulla maternità e l’aborto che l’Italia degli anni Settanta stava affrontando. Nessuna femminista dell’epoca si sarebbe fatta portavoce di un evento come il Family Day del 2007, organizzato con la benedizione della Cei per protestare contro le unioni civili. Nessuna femminista dell’epoca avrebbe mai definito il matrimonio «una vecchia e gloriosa istituzione umana che non merita di essere distrutta e svuotata di significato» come Roccella fece durante la manifestazione "Manif pour tous" di Parigi del 2013, che la Corte di Cassazione francese nel 2018 ha ritenuto legittimo definire «omofoba». Nessuna femminista dell’epoca si sarebbe prestata come docente della Scuola di bioetica di un’associazione che diffonde notizie false e pericolose sulle conseguenze fisiche e psicologiche sull’aborto, senza fare alcuna distinzione tra aborto volontario, spontaneo o terapeutico.

Forse Roccella ha dimenticato cosa sostenessero davvero le femministe dell’epoca. Possono aiutarla a ricordare usando le sue stesse parole: «Offrire alle donne strumenti e possibilità concrete di liberazione e di lotta […] ci sembra l’unico modo non “mistico” di essere sorelle. Non crediamo alla sorellanza ideologica né a quella biologica (unite perché donne e basta), ma a quella politica, alla sorellanza come convergenza di scopi e di interessi, ed è importante per noi sentirci così davvero sorelle a donne “qualunque”, non femministe; a Petruzza Lo Prete, immigrata di Genova morta perché si è infilata un ferro nell’utero nel tentativo di evitare una gravidanza non voluta, e che probabilmente era lontanissima come cultura, mentalità, ideologia, abitudini e magari tendenze politiche da noi, ma avrebbe – se ne avesse avuta l’occasione – firmato per il referendum sull’aborto, come sarebbe – se ne avesse conosciuto l’indirizzo – venuta al CISA o dai nuclei di autoassistenza ad abortire, e non sarebbe morta».

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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