News su migranti e sbarchi in Italia

Open Arms a Fanpage: “Astral torna in mare a salvare persone che l’Europa ignora”

Valentina Brinis, responsabile Advocacy di Open Arms, denuncia a Fanpage.it le responsabilità dell’Italia nei respingimenti verso Libia e Albania: “Si trasferisce la gestione dell’asilo a Paesi dove non esistono garanzie, e si pagano governi che praticano violenza e detenzione arbitraria”.
Intervista a Valentina Brinis
Esperta di diritti umani e immigrazione e Advocacy officer di Open Arms
A cura di Francesca Moriero
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C'è qualcosa di profondamente distorto nel modo in cui l'Europa e, in particolare, l'Italia hanno scelto di affrontare il fenomeno migratorio. Le politiche adottate negli ultimi anni rivelano una volontà sempre più marcata di demandare ad altri Paesi la responsabilità di contenere i flussi, anche quando quegli stessi Paesi non garantiscono né la vita né i diritti fondamentali delle persone. È un approccio che dovrebbe sollevare inquietudine, non compiacimento, e che invece viene spesso rivendicato come successo politico. Valentina Brinis, esperta di diritti umani e immigrazione e Advocacy officer della ong Open Arms, descrive così, a Fanpage.it, le storture del sistema italiano ed europeo in materia di immigrazione: si stipulano accordi con Stati come la Libia, la Tunisia, l'Egitto, paesi in cui le persone vengono respinte, incarcerate, lasciate morire nelle zone di confine o abbandonate nei deserti.

Nonostante le immagini feroci che continuano ad arrivare da quelle aree, bambini morti di sete e di fame in mare, uomini e donne picchiati e respinti, aggiunge Brinis, le istituzioni europee insistono nel rafforzare partenariati che espongono i migranti a violenze sistematiche; un paradosso di una politica che pretende di gestire il fenomeno migratorio ma che in realtà "continua a scaricare le proprie responsabilità su altri, senza affrontare le cause profonde degli spostamenti forzati". Anche il lessico, poi, ha un peso: parlare di "invasione", come ha fatto ripetutamente il governo Meloni, non sarebbe una novità ma una retorica che affonda le radici in un immaginario antico, quello delle "invasioni barbariche", ricorda Brinis, usato per descrivere movimenti di popolazioni che spesso andavano semplicemente da nord a sud. Un linguaggio che non fa altro che alimentare paure, mistificare i numeri reali e avvelenare il dibattito pubblico: si parla di emergenza, ma l'emergenza vera, come sottolinea Brinis, quella dei diritti negati, delle vite sospese, delle morti dimenticate, resta fuori dalla narrazione dominante.

Illusione del controllo: tra decreti e blocchi artificiali

Brinis ricorda poi come il governo rivendichi una diminuzione degli sbarchi e leghi questo risultato all'inasprimento delle norme introdotte dal decreto Piantedosi: l'assegnazione di porti più lontani alle ONG, il contenimento selettivo dei salvataggi in mare, le restrizioni imposte all'azione umanitaria. Ma una riduzione dei numeri sulla rotta mediterranea non significa che il fenomeno sia sotto controllo. Significa, piuttosto, che molte persone sono bloccate altrove. Non sono sparite, non hanno smesso di migrare: sono semplicemente intrappolate in paesi terzi, senza tutele, senza vie legali di accesso, spesso in condizioni disumane. A fronte di tutto questo, l'Unione europea continua a perseguire una strategia che Valentina Brinis definisce con chiarezza: esternalizzazione delle frontiere. Si paga cioè un altro Stato perché blocchi le persone prima che arrivino alle nostre porte. È successo con la Libia, con la Turchia, con il Niger, con l'Egitto e ora di nuovo con la Tunisia, dice Brinis. Forse nell'immediato funziona, rallenta i flussi, ma il costo umano è altissimo, e "la miopia di questa scelta strategica diventa evidente appena si guarda al quadro più ampio".

Centri oltreconfine e consenso immediato: la posta in gioco politica

L'obiettivo politico resta quello dell'effetto immediato: servono risultati visibili, da rivendere all'opinione pubblica. Ma l'immigrazione è un fenomeno complesso, che richiederebbe studio, tempo, capacità di analisi e un'etica della responsabilità. Invece, secondo Brinis, si preferisce il consenso rapido a scapito delle soluzioni durature, e non sarebbe quindi un caso che il governo abbia deciso di trasformare i centri previsti sul territorio albanese in veri e propri CPR, cioè in Centri di permanenza per il rimpatrio. Una modifica che sembra rivelare il fallimento dell'idea iniziale, e che appare come "un tentativo di tenere in piedi a ogni costo un'operazione politica più che funzionale". Del resto, l'Italia ha già dieci CPR attivi, che senso ha aggiungerne altri fuori dai propri confini? La risposta sembra più politica che pratica: difendere la narrazione di un controllo rafforzato, anche se ciò significa esportare i limiti del nostro sistema detentivo in un altro Paese.

Nel frattempo, restano le domande fondamentali: dove sono finite le persone che prima cercavano di attraversare il Mediterraneo? In che condizioni vivono? Chi ne garantisce i diritti? E, soprattutto, quale responsabilità si assume un Paese quando decide di bloccare vite umane in zone dove il diritto non esiste? L'apparente diminuzione degli arrivi non racconta la verità, dice Brinis. La verità si nasconde nelle frontiere esterne, nei deserti, nei centri di detenzione, nei silenzi delle istituzioni. Ed è lì che, prima o poi, saremo costretti a guardare.

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