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Oltre sei milioni di lavoratori guadagnano meno di mille euro al mese: il nuovo allarme della Cgil

Più di un terzo dei dipendenti del settore privato in Italia ha guadagnato nel 2023 meno di 15mila euro lordi annui, equivalenti a uno stipendio netto mensile inferiore ai 1.000 euro. È quanto emerge da uno studio della Cgil, che fotografa un mondo del lavoro schiacciato da precarietà, part-time involontari, bassi inquadramenti e discontinuità occupazionale.
A cura di Francesca Moriero
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Una volta si parlava di ‘generazione mille euro' come di un'eccezione, o di una condizione passeggera legata all'età e alla scarsa esperienza. Oggi, quella soglia non è più un simbolo generazionale ma una realtà diffusa e persistente. A dirlo è uno studio dell'Ufficio Economia della Cgil nazionale, che mette in fila dati impietosi: nel 2023 ben 6,2 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato, cioè il 35,7% del totale, hanno guadagnato meno di 15mila euro lordi annui, ossia meno di mille euro netti al mese. Se si alza l'asticella a 25mila euro lordi, si scopre che a rientrare in questa fascia sono quasi 11 milioni di persone, ovvero il 62,7% dei lavoratori dipendenti, escluse colf e operai agricoli. La retribuzione media nel settore privato è stata di 23.700 euro lordi annui, ma questa media nasconde forti squilibri:; più di 2,3 milioni di lavoratori, infatti, non hanno guadagnato nemmeno cinquemila euro lordi in tutto l'anno. Altri 1,8 milioni si collocano tra i 5 e i 10mila euro. Un segmento enorme di forza lavoro che vive con retribuzioni da fame, in molti casi non sufficienti nemmeno a coprire le spese fisse mensili.

Contratti a termine, part-time involontari e qualifiche basse

Alla base del problema ci sono elementi strutturali ben noti ma, secondo i sindacati, mai realmente affrontati. Secondo l'analisi della Cgil, le tipologie contrattuali e la durata del lavoro sono tra i principali fattori che deprimono i salari. I lavoratori con contratti a termine guadagnano in media 10.300 euro lordi l'anno, quelli in part-time circa 11.800. Ma chi somma entrambe le condizioni, temporaneità e orario ridotto, arriva appena a 7.100 euro lordi l'anno. Il quadro si aggrava se si considera la discontinuità lavorativa: oltre l'83% dei contratti cessati nel 2023 ha avuto una durata inferiore a un anno, e più della metà si è interrotta entro i primi 90 giorni. Un mercato del lavoro frammentato, instabile, che rende dunque assai difficile qualsiasi progetto di vita. Anche la qualifica professionale incide: nel nostro sistema produttivo, una larga fetta di lavoratori resta incastrata nei livelli più bassi di inquadramento, senza reali prospettive di avanzamento e con salari stagnanti. In parallelo, ben 2,8 milioni di dipendenti ricevono una retribuzione oraria inferiore a 9,5 euro lordi, una soglia che la Cgil indica come un livello minimo da garantire per legge.

Cgil: "Serve una legge sul salario minimo"

Per la Cgil, quella fotografata dallo studio non è più solo un'emergenza, ma una crisi strutturale che mette a rischio la dignità del lavoro: "Precarietà, discontinuità, part time involontario e l'elevata concentrazione di mansioni a bassa qualifica costituiscono la tempesta perfetta che colpisce milioni di lavoratori e lavoratrici", denunciano Christian Ferrari e Francesca Re David della segreteria confederale.  I due sindacalisti richiamano anche l'impatto dell'inflazione, che negli ultimi anni ha eroso drasticamente il potere d’acquisto senza che vi sia stato un adeguato recupero salariale. Il risultato è che sempre più persone sono povere pur lavorando, e che la forbice sociale continua ad allargarsi.

"Per rimediare a una situazione ormai intollerabile", spiegano, "è necessario agire su più fronti: cancellare la precarietà, rinnovare i contratti scaduti, rilanciare l’industria dopo 26 mesi consecutivi di declino, porre fine alla competizione basata sul costo del lavoro e adottare una strategia salariale che punti alla qualità dello sviluppo". In cima all'agenda, la Cgil colloca l'approvazione di una legge sul salario minimo legale, proposta che torna al centro del dibattito anche in vista dei referendum promossi per l'8 e 9 giugno, pensati per rimettere al centro del modello italiano un lavoro stabile, sicuro e giustamente retribuito.

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