Per Meloni la sinistra è più fondamentalista di Hamas, Schlein: “Ci dà dei terroristi, mai sentito in democrazia”

Nel centro della Toscana, piazza San Lorenzo, cuore pulsante di Firenze, si è trasformata in un'arena politica dove Giorgia Meloni, accompagnata dai principali leader del centrodestra, Matteo Salvini, Antonio Tajani e Maurizio Lupi, ha scelto di chiudere la campagna elettorale per le regionali. Proprio da quel palco, ieri sera, la premier ha lanciato un'accusa pesante: "La sinistra è più fondamentalista di Hamas". Non una semplice etichetta da sfida elettorale, ma un'escalation retorica che spalanca il confronto su un terreno di radicalismo assoluto; il centrosinistra toscano viene bollato come un "Leoncavallo largo", un enorme centro sociale incapace di unità, governato da fratture interne e da un senso di disgregazione che andrebbe oltre le divisioni politiche tradizionali.
Il paradosso della retorica dell'odio
Chi sta denunciando, proprio in questi giorni, la "violenza" e il "clima di odio" a sinistra ora non esita a consegnare al medesimo schieramento l'immagine di un irriducibile fondamentalismo; un paradosso non da poco, che non si limiterebbe alla cronaca di un contrasto politico, ma si fa sintomo di una strategia ben più profonda: non si tratta semplicemente di denunciare un nemico, ma di marchiarlo con un sigillo di esclusione totale. Chi evocava moderazione oggi adopera insomma la retorica del confine estremo, trasfigurando avversari in nemici radicali, in un gioco di specchi che trasforma la narrazione stessa in un campo di battaglia. Accanto a Meloni, Salvini ha caricato il messaggio di paura e insicurezza con attacchi sull'immigrazione, dipingendo i parchi fiorentini come invasi da stranieri e invitando a un ritorno a casa per i migranti. Tajani e Lupi hanno poi rincarato la dose, ironizzando sulle divisioni interne al centrosinistra e puntando il dito contro le contraddizioni di una coalizione ancora "in cerca di identità e di un orizzonte comune". Il coro è stato insomma monolitico e ha lasciato poco spazio a interpretazioni: non basta solo criticare ma occorre essere compatti, determinati e pronti a conquistare territori tradizionalmente inaccessibili.
A questo si è aggiunto anche un messaggio che coinvolge la dimensione internazionale, con Meloni che ha riservato un ringraziamento particolare a Donald Trump, "l'unico presidente che ha veramente tentato un accordo di pace", e a Benjamin Netanyahu, definito "coraggioso nel momento più difficile". Una visione che polarizza ulteriormente, e che presenta la sinistra come schierata con l’estremismo e il caos, quasi un ostacolo alla pace e al dialogo. Un quadro che, in tempi tanto delicati, amplifica la frattura interna al Paese.
Dall'altra parte, la sinistra ha provato a reagire con una strategia di differente natura: Eugenio Giani, governatore uscente e candidato del centrosinistra, ha chiuso la sua campagna in piazza Strozzi insieme a Matteo Renzi, lanciando un appello all'unità e al buon governo, allontanandosi dagli slogan incendiari e dalle provocazioni che infiammavano nel frattempo piazza San Lorenzo.
La risposta della sinistra: un richiamo a moderare i toni
Ma l'eco delle parole di Meloni è rimbalzato oltre i confini toscani: Elly Schlein, segretaria del Pd, ha invitato ad “abbassare i toni”, sottolineando come “non si è mai sentito in una democrazia che il presidente del Consiglio desse dei terroristi alle opposizioni”. Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italiana ha denunciato una “scelta precisa” della premier, che con questo paragone evita “il dibattito sui problemi reali degli italiani”, portando il discorso lontano dalle questioni fondamentali come il costo della vita e gli stipendi fermi. Davide Faraone, vicepresidente di Italia Viva, ha definito “incredibile” che, in un momento delicato, Meloni abbia scelto di alimentare la divisione invece di “abbassare i toni per festeggiare senza divisioni la pace a Gaza”.
Nel frastuono delle etichette e nelle ombre del confronto, la Toscana si trova così al centro di una partita che vale molto più di un'elezione regionale. È il terreno su cui si gioca la capacità del Paese di ritrovare un dialogo, o di precipitare in un conflitto senza vie d'uscita.