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L’ex presidente dell’Istat su occupazione e salari: “I dati vanno contestualizzati, siamo ultimi in Europa”

Abbiamo intervistato Giorgio Alleva, ex presidente dell’Istat, per fare il punto sull’occupazione e sui salari: i dati infatti raccontano delle tendenze positive, ma vanno contestualizzati per comprendere davvero la situazione in cui versa il mercato del lavoro. E a quel punto il quadro cambia.
Intervista a Prof. Giorgio Alleva
Ex presidente Istat
A cura di Annalisa Girardi
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L'occupazione a livelli record, i salari che aumentano: sono dati che, se messi nero su bianco su un foglio di carta, sembrerebbero raccontare un mercato del lavoro florido, in cui le persone impiegate sono sempre di più e pagate sempre meglio. Questa, però, è una fotografia un po' distorta e decisamente parziale. Perché per avere un quadro chiaro di come sta andando effettivamente l'occupazione in Italia, di quale sia la qualità dei salari, bisogna contestualizzare quei numeri: vanno esaminati tenendo conto, appunto, del contesto più ampio, vanno fatti confronti con gli altri Paesi, con gli anni precedenti, analizzando diverse variabili. Altrimenti avremmo sempre dei numeri fine a sé stessi, che non potranno davvero guidare delle politiche efficaci, in grado di migliorare la situazione.

Visto che, soprattutto in tempi di Legge di Bilancio, questi dati vengono spesso citati come la prova definitiva che le misure messe in campo hanno funzionato, abbiamo deciso di provare ad approfondire meglio la questione. E lo abbiamo fatto con Giorgio Alleva, economista e statistico, nonché ex presidente dell'Istat.

Professore, il dato sull'occupazione, molto positivo, viene spesso citato dal governo come indicatore dei risultati ottenuti. Però quel dato andrebbe contestualizzato, è corretto?

Non c'è dubbio. L'apprezzamento dei dati non può che avvenire attraverso un confronto nel tempo, con altri dati. Va bene commentare i progressi del tasso di occupazione nel nostro Paese, ma non dobbiamo dimenticare come ci posizioniamo rispetto a quelli simili al nostro nel contesto europeo: questa contestualizzazione dovrebbe – anziché farci festeggiare record su record – ricordarci che siamo sempre gli ultimi. Abbiamo un gap dell'occupazione importante, rispetto all'Europa, che è cresciuto nel tempo. In particolare, è molto forte quello femminile, anch'esso aumentato nel tempo.  Insomma, se non si riduce questo gap vuol dire che c'è ancora molto altro da fare, per cui i festeggiamenti andrebbero un po' rimandati.

Come andrebbe analizzato il dato sull'occupazione? 

L'occupazione misura la quota di persone che nella settimana di riferimento ha svolto almeno un'ora di lavoro pagata. Oggi è sempre più rilevante il lavoro part-time, il lavoro stagionale, per cui oltre a contare le teste bisognerebbe contare le ore di lavoro, che è l'indicatore cruciale per valutare l'input di lavoro e quindi il contributo del lavoro alla produzione. E anche la produttività tipicamente si misura in forma oraria, quindi il rapporto tra il prodotto e le ore lavorate: se guardiamo alle ore lavorate dai dipendente, queste dal 2015 sono aumentate soltanto di 3,5 punti percentuali. Se prendiamo il dato sull'occupazione dal 2015, questa è aumentata dell'8,1%. Quindi non basta valutare il numero di persone occupate, ma bisogna vedere poi l'input di lavoro. Già questo semplice confronto ci permette di dire che oggi, rispetto a dieci anni fa, l'intensità di lavoro si è ridotta e questo, anche da un punto di vista reddituale ha un impatto.

Cosa significa?

Per valutare l'occupazione bisogna valutarne la qualità: quindi le retribuzioni, ma anche la tipologia di lavoro rispetto alle aspettative tipicamente collegate con il titolo di studio. Oggi si parla di lavoro povero, di lavori con un livello di qualificazione bassa, che aumenta come quota, e non sempre è appannaggio di persone poco qualificate. Quindi c'è un problema di mismatch tra le competenze e il lavoro che si fa e questo è un tema molto importante: se dobbiamo ragionare sul benessere delle persone le retribuzioni e il tipo di lavoro svolto rispetto a quelle che sono le potenzialità è una questione importante.  Quindi l'occupazione va letta alla luce di diversi elementi e non basta uno solo, bisogna avere un quadro completo.

Anche sui salari ci sono state delle rivendicazioni da parte del governo, che ha sottolineato come questi siano cresciuti nell'ultimo anno. Ma sappiamo che dagli anni Novanta in Italia i salari reali non aumentano, a differenza del resto d'Europa

Mi sembra che l'Italia sia l'unico Paese europeo in cui i salari reali non sono aumentati, in cui c'è stata una perdita del potere d'acquisto. E questo chiaramente è un dato importante. I margini di miglioramento ci sono, basta guardare a Paesi simili al nostro. La Spagna, ad esempio, era un Paese molto indietro su tanti fronti – dalle infrastrutture, al lavoro, alla parità di genere – e ha fatto progressi incredibili, superandoci in tanti campi. Questi sono i Paesi con cui fare il confronto: con la Spagna, la Francia, la Germania. I margini di miglioramento sono ampi e questo è un dato positivo, perché significa che davanti a noi ci sono sfide che possiamo riuscire a cogliere. Questo è il momento dell'impegno e della consapevolezza di tutti, al di là delle parti. C'è da migliorare ancora tanto.

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