
Facciamo un gioco. Tu hai 6 anni e io provo a spiegarti cos’è la Global Sumud Flotilla. Oppure sei già grande e hai un figlio, o una sorella più piccola, e stai cercando le parole giuste per raccontargli la più grande missione umanitaria a memoria umana.
Bambino, bambina, io provo a condividere con te le mie parole, e tu promettimi di impastarle con qualcuno dei tuoi sogni.
Partiamo dal nome.
Global Sumud Flotilla sono due parole inglesi e una araba. Global significa che non ci sono persone da un solo Paese, ma da 44 diversi Paesi, che partecipano a un’unica missione. È così che intendiamo la globalità. Flotilla significa insieme di navi, nel nostro caso soprattutto barche, che viaggiano insieme, principalmente a vela. E Sumud è la parola più bella, di origine araba, diventata simbolo della resistenza e della perseveranza del popolo di Palestina. La parola è araba ma ha acquisito senso soprattutto qui, in ambito palestinese: indica tenacia di fronte all’occupazione israeliana, e la volontà di esistere e per questo la necessità di resistere.
Bambina, bambino, i nomi sono importanti ma quello che ci metti dentro è ancora più importante. E dentro il nome Global Sumud Flotilla ci sono persone che hanno scelto di prendere un mese della propria vita e mettersi in viaggio, tutte insieme e su tante barche, per portare qualcosa da mangiare a chi ha molta fame. Per questo la nostra è una missione umanitaria. Niente di più, niente di meno.
Bambino, bambina, questa è la parte più straziante della storia: perché esistono persone che hanno fame e non possono mangiare? Inizio da qui: l’accesso al cibo e all’acqua non contaminata non è un problema locale, ma c’è un particolare Paese nel mondo – che tra l’altro ancora non è neanche riconosciuto come Paese, infatti non lo trovi su tutte le cartine geografiche – che sta subendo una fame indotta. Significa che non sarebbe un Paese povero, o con terre così aride da non poter avere cibo a sufficienza; però lo diventa perché c’è un altro Paese vicino – e questo sì che si trova su tutte le cartine geografiche – che impedisce agli abitanti della prima striscia di terra di procurarsi il cibo. O ad altri di farglielo arrivare. E anzi: sta affamando quelle persone cercando proprio di cacciarli via da quella terra e di prendersela loro. Come se fosse un risiko in cui questo Paese vicino ha già tutti i carri armati e vuole anche la proprietà dei dadi, e non gli basta vincere ma vuole proprio cacciarti dalla stanza e da casa tua.
In altre parole: c’è un Paese – si chiama Israele – che sta impedendo alle persone di Palestina di nutrirsi.
Bambino, bambina, Israele agisce così: immaginati pronto per il pranzo, hai molta fame e nel momento in cui mamma o babbo, la zia o un vicino di casa arrivano da te con un piatto di pasta al pomodoro, ci fosse qualcuno che dice loro: “Non si può, non è sicuro. Potrebbe mangiarle qualcun altro. Dallo a me quel piatto che glielo porto io”. E con la minaccia delle armi, tante armi, Israele si prende il piatto di pasta e lo butta via. Oppure te lo consegna e mentre mangi spara un po’ intorno a te e ogni tanto ti colpisce.
Bambino, bambina, noi oggi su queste barche siamo quelli che portano il piatto di pasta, diversi sughi e molti medicinali a chi oggi ha fame.
Ti diranno che siamo in vacanza e non è vero.
Ti diranno che siamo velleitari, inutili, sciocchi, utopici, e avranno invece un po’ di ragione. Perché le possibilità di riuscita di questa missione umanitaria, sono pochissime. L'esercito israeliano quasi sicuramente ci fermerà prima. Ma ti dico anche un’altra cosa: non sarà stato inutile perché avremo comunque tracciato una via, mostrato che scendere in piazza e per mare ha ancora un senso quando riesce ad aggregare persone intorno a un’idea. E che questa è un'idea giusta: aprire un varco, rompere un assedio. E che gli equilibri si possono cambiare solo così, facendo cose e costringendo i Governi a smettere d’ignorare il primo genocidio in diretta social.
Bambino, bambina, ti racconto questo.
Io sono il padre di due ragazze, una ha appena compiuto dieci anni e l’altra tredici, li ha compiuti questa settimana e oggi – domenica – mi ha mandato le foto della caccia al tesoro che sta preparando per i festeggiamenti di oggi pomeriggio, con le sue amiche. Avrei dovuto preparargliela io la caccia al tesoro, e invece oggi sono su una barca in direzione Gaza, con un po’ di mal di mare e la voglia di raccontare il mondo che cambia, trovando le parole adatte ogni giorno, per aiutarlo a cambiare davvero.
Bambina, bambino, mi sa che mi hai scoperto. Sto scrivendo a te pensando alle figlie mie, e non è così strano: io credo che tutte le bambine del mondo, tutti i bambini, debbano avere gli stessi diritti. Palestinesi, israeliani, italiani, ovunque si siano trovati a nascere, con un passaporto oppure con un altro. Tutti i bambini devono avere diritto di andare a scuola, come te. Mangiare come fai tu. Giocare ed essere felici, che per noi è importante e non è un'appendice.
La Flotilla è un canto intonato in mezzo a note stonate. Non siamo dissidenti, o disobbedienti. Siamo obbedientissimi alle leggi della comunità umana: dare da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete. Non sono slogan di un centro sociale, sono i principi di chi crede nelle parole e nelle azioni, e pensa che queste debbano viaggiare insieme.
Bambino, bambina, non ti ho detto tutto. Non ti ho raccontato delle azioni di guerra, dei bombardamenti e dei droni, delle immagini strazianti che girano, perché per spiegare quelle azioni non ho parole adatte per te, bambino, ma neanche per un adulto. Non so spiegarlo neanche a me stesso.
Poco forse so, ma quel poco lo racconto. Perché ricorda sempre: "Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo!" come diceva il professor John Keating, alias Robin Williams ne L'attimo Fuggente, un film che dovresti vedere perché non è soltanto un film, e ha segnato i sognatori e le sognatrici della mia generazione.
