L’accordo sui dazi con gli Stati Uniti divide i paesi dell’Unione europea e fa infuriare la sinistra

L'accordo raggiunto tra l'Unione europea e gli Stati Uniti sulla questione dei dazi commerciali, presentato come una misura necessaria per scongiurare un'escalation economica, ha scatenato un'ondata di reazioni politiche contrastanti in tutta Europa. Al di là dei toni diplomatici usati nei documenti ufficiali, il compromesso siglato a Bruxelles ha lasciato dietro di sé una scia di malcontento e accuse, confermando la fragilità interna dell'Unione di fronte alle pressioni esterne, in particolare quelle provenienti da Washington e dal suo presidente, Donald Trump.
È soprattutto la sinistra spagnola a dare voce all'inquietudine: Podemos ha infatti fin da subito attaccato duramente sia l'esecutivo guidato da Pedro Sánchez che la Commissione europea, accusandoli di essersi piegati "mano nella mano" agli interessi degli Stati Uniti: "Il governo si inginocchia per compiacere Trump e Ursula von der Leyen, trasformando la Spagna in una terra di sacrifici per la gloria americana", ha infatti dichiarato senza mezzi termini la segretaria del partito Ione Belarra.
Per Irene Montero, ex ministra e ora europarlamentare, l'accordo invece non sarebbe altro che "un gran furto" a vantaggio delle élite industriali e militari; Montero ha evocato un'immagine volutamente provocatoria: "Trump ha accolto BomberLeyen nel suo campo da golf. Quella foto dice tutto: è lo stivale sul collo dell'Europa". A suo dire, l'intesa sancirebbe un ulteriore passo nel "regime di guerra" che la Commissione avrebbe abbracciato, con l'appoggio di popolari e socialisti.
Sánchez in equilibrio precario: l'accordo non convince nemmeno lui
Sotto il fuoco incrociato di queste critiche, Pedro Sánchez cerca invece di restare in equilibrio su un filo che sembra sempre più sottile: da un lato, è infatti leader di uno dei pochi governi progressisti rimasti in Europa, e fa parte del gruppo dei Socialisti e Democratici europei che hanno sostenuto la rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione; dall'altro, però, sa bene che l'accordo con Washington è malvisto non solo dalla sinistra più radicale, ma anche da una parte della sua base sociale. Per questo, durante la conferenza stampa convocata a margine del vertice, ha scelto una formula volutamente ambigua: "Sostengo questo accordo, ma lo faccio senza alcun entusiasmo". Una dichiarazione che, insomma, sembra avere il sapore dell'ammissione di impotenza, ma che prova a prendere le distanze dal trionfalismo che arriva da Berlino o da Bruxelles.
La Francia e il fantasma della "sottomissione"
Ma è in Francia che l'accordo ha scatenato una delle reazioni più forti, e anche più cariche di significato simbolico: a parlare è stato François Bayrou, primo ministro francese e alleato storico di Emmanuel Macron, che in un post su X (ex Twitter) ha scritto: "È un giorno buio quello in cui un’alleanza di popoli liberi, riuniti per affermare i propri valori, si rassegna alla sottomissione".
Quella parola, "sottomissione", non è stata scelta a caso; in Francia evoca immediatamente il titolo del romanzo Soumission di Michel Houellebecq, pubblicato nel 2015, in cui si immagina una Francia del futuro governata da un presidente musulmano moderato, con un'Europa che rinuncia progressivamente ai propri valori per adattarsi alla nuova egemonia. Nel romanzo, la "sottomissione" è alla cultura islamica; nelle parole di Bayrou, invece, la sottomissione è all'egemonia degli Stati Uniti. Il riferimento non è dunque alla religione, ma a un'Europa che, a suo giudizio, sta perdendo la propria autonomia politica ed economica, accettando passivamente condizioni imposte da Washington. Il paragone ha fatto, ovviamente, immediatamente discutere: alcuni l'hanno visto come un grido d'allarme legittimo, altri come un gesto di ipocrisia. Laurent Jacobelli, portavoce del Rassemblement National, lo ha attaccato con sarcasmo: "Un lampo di lucidità. Speriamo che il primo ministro trasmetta questa analisi anche al premier…", ironizzando sul fatto che Bayrou, da capo del governo, parla come se fosse estraneo alle decisioni che lui stesso contribuisce a prendere. La contraddizione appare evidente: se anche un leader di governo denuncia pubblicamente la "sottomissione" dell'Europa agli Stati Uniti, ma allo stesso tempo non fa nulla per evitarla, allora il messaggio che arriva è quello di un'Unione disarmata, priva di voce, incapace di offrire un'alternativa. E questa è, forse, la vera inquietudine che le parole di Bayrou hanno portato alla luce.
Nel frattempo, Emmanuel Macron, che nelle settimane precedenti era stato tra i leader più critici nei confronti delle pressioni statunitensi, ha invece preferito non commentare pubblicamente; una scelta di silenzio che pesa e che viene letta da molti come il segno di una resa politica. Lo stesso ha fatto Donald Tusk in Polonia: anche il premier liberale polacco, in passato schierato su posizioni autonomiste rispetto a Washington, ha infatti evitato di esporsi.
Berlino, il dietrofront di Merz e la paura per l'economia
In Germania, l'accordo è stato inizialmente accolto con un certo ottimismo: il cancelliere Friedrich Merz, esponente della CDU, aveva parlato domenica sera di un'intesa utile a "proteggere gli interessi fondamentali dell'industria europea". Ma il giorno dopo, di fronte alle prime analisi economiche e alla reazione delle imprese tedesche, Merz ha cambiato tono: "Non sono soddisfatto. L'impatto sull'economia tedesca sarà considerevole". Le stime del Kiel Institute for the World Economy lo confermano: con l'applicazione di un dazio medio del 15%, la Germania rischia una perdita dello 0,13% del PIL, la più alta in Europa. A confronto, l'Italia sarebbe colpita solo marginalmente (-0,02%), così come la Francia (-0,01%). Ma sono comuqnue delle proiezioni parziali, che non tengono ancora conto delle eccezioni promesse per alcuni settori strategici: farmaceutico, aerospaziale, chimico e agricolo. Il commissario europeo al Commercio, lo slovacco Maros Sefcovic, ha provato nel frattempo a chiudere le polemiche con tono brusco e difensivo: "Voi non eravate in quella stanza. Questo era il miglior accordo possibile". La sua conferenza stampa a Bruxelles è stata segnata da una tensione palpabile, sintomo delle crepe profonde all'interno del Consiglio europeo e della difficoltà nel trovare un fronte comune.
Nonostante le critiche, in Francia si cerca poi anche di rilanciare su un altro terreno: Benjamin Haddad, ministro per gli Affari europei, ha riconosciuto che l’accordo è "squilibrato", ma ha sottolineato un possibile vantaggio politico: "Almeno toglie l’incertezza". E ha rilanciato l'idea di usare il cosiddetto "strumento anti-coercizione" europeo, per tassare i colossi digitali americani o escluderli dai mercati pubblici. In altre parole: accettare oggi per potersi difendere meglio domani. Ma anche questa promessa, al momento, sembra restare sulla carta.
L'unico a esultare è Viktor Orbán
Mentre l"Europa litiga e si interroga sulla propria autonomia, Viktor Orbán festeggia. Il premier ungherese, da sempre vicino a Trump e critico dell'integrazione europea, ha infatti presto definito l'accordo "peggiore di quello firmato tra Stati Uniti e Regno Unito". E ha aggiunto con sarcasmo: "Trump si è mangiato Ursula a colazione". Un'espressione volutamente brutale, ma perfettamente coerente con il personaggio, che sembra trovare in ogni crisi europea la conferma del proprio isolazionismo strategico.
Ora una domanda resta: se questa era davvero la soluzione migliore possibile, allora quanto è debole oggi l'Unione europea? E quanto potrà resistere a una nuova presidenza Trump, se già ora sembra costretta ad adeguarsi?