
Quando manca meno di un mese all’8 e 9 giugno, finalmente si comincia a parlare seriamente dei referendum su lavoro e cittadinanza. Per paradossale che possa sembrare, un bel po’ di visibilità alle ragioni dei promotori della consultazione sono stati gli appelli a disertare le urne, arrivati da autorevoli esponenti del governo e persino, sia pure in forma contorta e ambigua, dalla seconda carica dello Stato, il presidente del senato Ignazio La Russa. Le polemiche che ne sono seguite hanno avuto come diretta conseguenza quella di evidenziare quanto fosse stata bassa fino a quel momento la copertura mediatica dell’appuntamento elettorale. E, immediatamente, sul banco degli imputati è finito il servizio pubblico, largamente targato Giorgia Meloni.
Sollecitato da numerosi esponenti politici, è intervenuto anche il Consiglio dell’Agcom, che ha adottato un provvedimento di richiamo “alla Rai e a tutti i fornitori di servizi di media audiovisivi e radiofonici operanti in ambito nazionale, affinché garantiscano un’adeguata copertura informativa sui cinque temi oggetto dei referendum indetti per i giorni 8 e 9 giugno”. Nella nota dell’Autorità si ricordano i dati del monitoraggio, spiegando che esistono specifiche determine e regolamenti che “si soffermano con particolare attenzione sull’esigenza di assicurare un’adeguata trattazione delle tematiche referendarie, allo scopo di garantire una informazione completa, imparziale e corretta sui quesiti”.
Un’accusa che la RAI respinge al mittente, con un comunicato per tanti versi anomalo, in cui si ricordano le singole trasmissioni che si sono occupate dei temi referendari, “pur in un momento complesso e segnato dalla scomparsa di Papa Francesco e dalla successiva elezione di Papa Leone XIV”. Inoltre, si legge nella nota di viale Mazzini, “gli spazi informativi della stessa direzione sono destinati ad aumentare ulteriormente” e le tribune politiche garantiranno adeguato spazio alle ragioni del Sì e del No.
Che questo non stia avvenendo nei modi e nelle forme attese è però l’opinione di diversi osservatori. Scrive David Romoli su L’Unità: “La RAI finge che il referendum non esista. E, al di là delle rimostranze della sinistra, diciamo che il boicottaggio a mezzo tv di Stato fa un torto a Meloni. Stavolta l’opposizione ha tutte le ragioni per protestare a voce alta. L’interrogazione in commissione di vigilanza presentata dal PD è davvero il minimo”.
Un’interrogazione che prende le mosse dalla tesi che, appunto, la RAI abbia messo in atto un vero e proprio black-out informativo non casuale:
La Rai sembra aver scelto la linea di Palazzo Chigi e del Presidente del Senato: far finta di niente, scoraggiare la partecipazione. Sarebbe molto grave e per questo presenteremo un'interrogazione in commissione di vigilanza per sapere perché la Rai non sta facendo il suo dovere e chi ha deciso di tenere i cittadini all'oscuro. Il servizio pubblico non può trasformarsi nello strumento di propaganda della maggioranza di governo. I cittadini hanno diritto a un'informazione completa e libera, soprattutto quando sono chiamati a esprimersi su temi cruciali come quelli contenuti nei quesiti referendari
In soccorso del servizio pubblico arrivano però i giornali della destra. Gli amici nel momento del bisogno, insomma. Domenico Di Sanzo su Il Giornale scrive: “L'opposizione, in vista del prevedibile flop referendario dei quesiti su lavoro e cittadinanza, mette le mani avanti e inscena una sorta di auto flagellazione preventiva. Un'analisi della sconfitta, ancor prima che il rovescio si materializzi nelle urne […] Tra divisioni, quorum chimera e polemiche, l'opposizione attacca la Rai. Il soccorso catodico arriva dalla comica Geppi Cucciari ad Amici”.
Ora, in un momento normale potremmo anche meravigliarci di come un monologo di un’artista su un tema importante come il referendum possa indispettire così tanto chi detiene saldamente le redini del governo. Ma poi ci ricordiamo del fatto che sono giorni che la destra invia spin e veline contro un attore, Elio Germano, colpevole di aver preso posizione su un tema specifico, peraltro di sua competenza diretta.
Oltre alla scarsa copertura mediatica, va comunque ribadito che a pesare sulla possibilità che si raggiunga il quorum sono ragioni strutturali e politiche. Come vi abbiamo spiegato, bisogna in primo luogo da considerare le “condizioni di contesto” che rendono molto complicato, al momento, pensare di poter portare alle urne un numero così grande di elettori. Non è un caso che in molti da tempo chiedono una revisione dello strumento referendario, in particolare per quanto concerne il quorum. Lo spiega oggi Paolo Balduzzi su Il Messaggero:
Ai tempi della sua regolamentazione legislativa (legge 352 del 1970), l'obbligo di voto in Italia non era semplicemente un richiamo di principio contenuto nell'articolo 48 della Costituzione ma una vera e propria previsione di legge. Insomma, c'erano, seppur lievi, conseguenze dal non andare a votare. Certo, l'obbligo si riferiva alle elezioni politiche: tuttavia, tale previsione contribuiva attivamente a creare consenso culturale verso la partecipazione. Di conseguenza, è assolutamente vero che, una volta, il quorum era più facile da raggiungere rispetto a oggi. […] Ora, è chiaro che ogni nuova maggioranza politica potrebbe, con gli strumenti messi a disposizione dall'articolo 138 della stessa Costituzione, mettere mano all'articolo 75 cambiando solo ciò che desidera cambiare. Quindi anche solo il livello di quorum richiesto e financo la sua esistenza. Ma se si volesse rispettare lo spirito del legislatore dell'epoca allora bisognerebbe compensare questa maggiore facilità con dei contrappesi. Per esempio, non sfuggirà a nessuno che raccogliere la firma di 500.000 elettori sia estremamente più semplice adesso rispetto al 1948. Perché allora non bilanciare un quorum più leggero con un vincolo più elevato per la sua richiesta?
Quanto alle ragioni politiche, invece, l'attenzione non può che andare alle divisioni dell'opposizione e alle dinamiche interne al Partito democratico (in particolare dopo la lettera pubblica della minoranza, che prende le distanze dai quesiti sul lavoro).
I conti li fa Marcello Sorgi su La Stampa: "Per la validità del voto servono tra 22 e 23 milioni di votanti. Gli iscritti alla Cgil, che ha promosso i referendum, sono oltre 5 milioni, faccia-mo 5 milioni e mezzo, Il Pd alle europee ha sfiorato il 23%, con affluenza di poco superiore al 50. Aggiungiamo altri 5 milioni, ma con voto selettivo, come dice la lettera dei riformisti. E siamo a 10. Poi c'è il 10-12% di Conte, valutiamolo in 2 milioni e mezzo, Arriviamo a 12 milioni e mezzo. Con Avs, Italia viva e Azione, gettando il cuore oltre l'ostacolo e senza tenere conto dei "si" e dei "no", vogliamo aggiungere altri altri 2 milioni e mezzo? Siamo giunti a 15 milioni. Abbiamo arrotondato sempre in eccesso per evitare accuse di pessimismo. Ma fatte tutte le somme e considerato che gli elettori di centrodestra non andranno a votare o andranno in minima parte, perché considerano la vittoria dell'astensione il risultato più facile da conseguire e quello politicamente più conveniente – lo giustificano dichiarando "perché aprirà un congresso a sinistra"-, ai promotori mancano tra 7 e 8 milioni di elettori".
Calcoli discutibili, probabilmente, ma che ci aiutano a farci un'idea su quanto sia complessa l'impresa in cui si sono gettati i promotori dei referendum. Pensare di farcela con questo livello di copertura mediatica, poi, è più che complicato.
