La delusione degli italiani senza cittadinanza dopo il referendum: “Contro di noi disinformazione e attacchi”

La delusione è tanta. Certo, sopratutto fra gli addetti ai lavori, si sapeva che il quorum era un traguardo lontano ma difficilmente ci si sarebbe aspettati che tra i cinque quesiti al referendum quello sulla cittadinanza ottenesse il maggior numero di ‘No'. La proposta di riformare la legge del 1992, dimezzando da 10 a 5 gli anni necessari per diventare cittadini di diritto, non solo non ha raggiunto il quorum, ma è andato peggio di tutti: 65,5% i ‘Sì', 34,5% i ‘No'.
"Sono delusa soprattutto perché abbiamo investito su una campagna referendaria per la cittadinanza, ma addirittura qua bisognerebbe fare campagna per il voto", ci dice Irene Vettiyadan, del Comitato promotore del referendum, che le scorse settimane aveva raccontato, proprio negli studi di Fanpage.it, il lungo percorso per ottenere diventare cittadina di diritto. "Oggi fa male. Siamo delusi. Ma anche profondamente fieri. Sapevamo fin dall’inizio che sarebbe stata una sfida quasi impossibile, eppure non ci siamo tirati indietro", le fa eco Nathali Ramos, anche lei tra gli attivisti e le attiviste che in questi mesi hanno lavorato alla campagna referendaria.
"Il mio ruolo – prosegue Irene – dentro al comitato per la cittadinanza, non era neanche di far capire alle persone l'importanza di ridurre questi 10 anni a 5 anni di residenza continuativa, ma in realtà dovevamo fare campagna per ricordare alle persone l'importanza del voto e di esprimere, che sia no o che sia sì, la propria volontà e la propria preferenza rispetto a delle decisioni che vengono prese per il Paese, quindi che ci riguardano tutti"-.
Gli appelli all'astensione dai partiti di centrodestra hanno giocato un ruolo nel fallimento del quesito. "A livello mediatico il fatto che un governo eletto democraticamente non si impegni a promuovere un referendum e a promuovere anche il dovere, il diritto dei cittadini rispetto al voto è una grande mancanza e si è visto come ha colpito i risultati finali", spiega Irene. Così come la scelta della presidente del Consiglio e leader del primo partito in Italia – immortalata dalle foto al seggio – di non ritirare le schede. "Io ho lavorato anche al seggio come scrutatrice e ci sono stati episodi di chi si è presentato e non ha voluto prendere le schede. Semplicemente ci è stato detto: "Questa è la mia forma di pretesa, faccio così, come anche i nostri leader ci hanno consigliato di fare", racconta. "Sicuramente il messaggio del nostro governo è stato preso in considerazione, ovviamente, anche perché c'è stata più campagna per astensionismo che per votare da parte dei rappresentanti politici e delle istituzioni".
Eppure la mobilitazione è stata tantissima, o almeno così è parso a tutti coloro che all'interno delle proprie bolle social hanno visto crescere la condivisione di contenuti e messaggi a supporto della battaglia per la cittadinanza. "Questa è stata anche una grande realizzazione di come i social media aiutano a fare campagne, a raggiungere persone che però già esprimono una preferenza, per cui l'algoritmo continua a farti arrivare quel tipo di contenuti", commenta Irene. "Quindi sicuramente per noi che eravamo nella campagna da un punto di vista social sembrava ci fosse speranza, perché vedi tutti ricondividere la storia, incitare a votare, mettersi in gioco. Però effettivamente ti rendi conto anche che se sei una persona per niente informata sulla campagna referendaria e non esprimi nessuna preferenza rispetto a ciò, il tuo algoritmo ti tiene in una bolla per cui questa informazione non non arriverà".
Aspetti che impongono una riflessione non solo sul funzionamento in sé delle logiche che governano le piattaforme, ma anche sulle modalità di organizzazione di una campagna che possa produrre dei risultati concreti. Altrimenti, per dirla in parole semplici, il rischio è di continuare a parlare tra di noi, anziché a quelle fette di elettorato ancora da convincere. "I social media sembrano essere una porta che ce ne apre altre mille, ma in realtà si creano delle piccole stanze guidate dagli algoritmi, tante piccole bolle per cui mi chiedo anche quali siano le strategie che potremmo usare in futuro per una campagna referendaria digitale anche più mirata, più efficiente nel raggiungere algoritmi che non sono assolutamente favorevoli a questo tipo di contenuti".
Ma c'è anche un altro aspetto che vale la pena considerare. Il quesito sulla cittadinanza ha mobilitato molto di più la quota di elettori contrari a recarsi alle urne e votare ‘no' rispetto a quelli sul lavoro. In un tipo di consultazione, ovvero il referendum abrogativo, in cui astenersi è sufficiente per decretarne il fallimento. La possibilità di concedere agli stranieri meno anni di soggiorno legale e continuativo in Italia per poter fare domanda di cittadinanza, invece ha spinto i contrari ad attivarsi al punto da disattendere gli inviti a disertare i seggi. E allora anche qui forse, occorre fare un passo in più e riflettere su come il discorso sulla cittadinanza in Italia venga ancora inevitabilmente legato, se non addirittura fatto equivalere, a narrazioni distorte che mischiano concetti quali immigrazione illegale e criminalità che alimentano un inutile clima di allarme e paura. "Gli attivisti e le attiviste del Comitato Referendum Cittadinanza hanno lottato con coraggio, cuore e dignità, contro ogni ostacolo: silenzi, disinformazione, attacchi. E lo abbiamo fatto insieme", commenta Nathali. "Non ci aspettavamo una partecipazione così bassa, intorno al 30% degli aventi diritto al voto, ma sappiamo che cambiare davvero richiede tempo, visione e una forza collettiva come quella che abbiamo costruito. Una rete viva, determinata, che non si spegne. Adesso respiriamo. Prendiamoci cura di noi e delle relazioni nate in questo cammino. E poi torniamo, perché noi ci siamo e non molliamo mai", conclude.